Covid e tabù. L’informazione ai tempi della guerra contro il Covid

1 – Fare informazione in tempi di guerra

Oltre a fare il prof. universitario, di Sociologia e Analisi dei dati, negli ultimi 16 anni ho fatto il mestiere di editorialista. I quotidiani con cui ho collaborato, la Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero erano (e sono tuttora) politicamente poco caratterizzati. In concreto, vuol dire che potevo scrivere (quasi) tutto quel che mi passava per la testa.

Certo, mi è capitato di sentire qualche volta la pressione a non essere troppo crudo, ma mai ho avuto la sensazione che ci fossero cose vere che non si potevano dire.  O, più esattamente: mai ho avuto la sensazione che ci fosse, nei miei campi di studio, qualche risultato di ricerca di cui – sul quotidiano – era meglio non parlare. Anche nell’epoca del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo, le cose erano filate lisce: si poteva essere pro o contro, e agli studiosi al massimo capitava di sentirsi dire che un certo risultato, una certa analisi, un certo dato potevano essere “strumentalizzati” dalla destra o dalla sinistra.

Oggi è ancora così?

Per certi versi credo di sì. Anche oggi, nessuno ti dice che cosa devi scrivere, e che cosa non puoi scrivere. Ma per altri versi sento che no, non è più così. Un clima come quello che si respira da 8-9 mesi a questa parte non mi è mai capitato di avvertirlo prima, forse perché non sono abbastanza vecchio per avere memoria di quel che può diventare il mestiere di editorialista indipendente quando scoppia una guerra.

Già, perché questo è successo: alla fine del 2020 l’Italia, come ogni altra nazione europea, ha dichiarato ufficialmente guerra al virus. E, nello stato di guerra, tutto cambia. La popolazione è chiamata a cooperare allo sforzo bellico, e chi è nella condizione di vestire la divisa (i maggiorenni) è tenuto ad arruolarsi (vaccinarsi). Chi rifiuta di farlo è considerato un disertore, chi non partecipa alla campagna di arruolamento, o lo fa esprimendo qualche riserva, viene visto come un disfattista. I media principali sono chiamati a dare il loro contributo a vincere la guerra che è stata dichiarata. Non era mai successo, dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall’ultima guerra vera scoppiata in Europa.

Ed ecco il problema. Il lavoro dello studioso, se non è accecato dall’ideologia e dalla faziosità, non è quello di sostenere con tutti i mezzi una determinata causa, foss’anche la più nobile. Il lavoro dello studioso è di dire le cose come stanno, in base alle risultanze della ricerca scientifica. Se non fa questo, e decide che cosa dire e che cosa non dire in base all’opportunità politico-militare del momento, perde completamente la sua credibilità.

Ma dire le cose come stanno è difficile nel corso di una guerra, e lo è particolarmente sui media più autorevoli (stampa e tg), che – giustamente dal loro punto di vista – si sentono impegnati in una missione suprema, la guerra al Covid, non certo a dare ai propri lettori una rappresentazione accurata della realtà. Il guaio, per lo studioso, è che fra le molte cose vere o supportate dai dati ve ne sono parecchie che non tengono alto il morale delle truppe, o addirittura hanno effetti di demoralizzazione.

Né si pensi che tutto il problema stia nei mezzi di comunicazione ufficiali e a vasta diffusione, come i quotidiani nazionali e le reti tv. In questi mesi ho letto sul web migliaia di interventi, sia di tipo scientifico sia di tipo giornalistico, sul Covid e i vaccini, e quasi sempre, fin dalle prime righe, sono stato in grado di riconoscere l’intento primario dell’autore: o la difesa della vaccinazione, o la messa in dubbio della sua utilità e sicurezza.

Aut Aut. Mai il tentativo di raccontare l’intera verità, o perlomeno quello che fino a quel momento si sa dell’andamento dell’epidemia e dei mezzi per contrastarla.

2 – Dal fact checking al fake checking

Questa compulsione a prendere partito, riducendo al minimo i dubbi e le sfumature, è tanto più interessante quando si manifesta negli interventi di fact checking, i cui estensori ambirebbero ad un ruolo di giudici obiettivi e neutrali: anche lì, dopo poche righe, capisci dove si va a parare.

La pratica del fact checking, proliferata durante il Covid, meriterebbe uno studio a sé. In innumerevoli casi si è trasformata in una sorta di killeraggio a danno delle posizioni eterodosse, anche se sostenute da studiosi autorevoli, o supportate da pubblicazioni in riviste prestigiose.

Forse il caso più clamoroso di killeraggio è stato quello nei confronti degli scienziati che sostengono la tesi, minoritaria ma non del tutto priva di argomenti a supporto, secondo cui la vaccinazione di massa – in presenza di alti livelli di circolazione del virus – possa favorire la nascita di varianti resistenti ai vaccini stessi.

Questa tesi, giusta o sbagliata che sia, è stata completamente cancellata dalla comunicazione pubblica, perché avrebbe potuto instillare il dubbio che sia stata una follia, nell’autunno-inverno del 2020, non abbattere la circolazione del virus prima di iniziare la vaccinazione di massa; e ora potrebbe alimentare il sospetto che la vaccinazione non basti, e che l’era delle restrizioni e dei lockdown non sia affatto finita.

Nonostante gli sforzi per cancellarla e squalificarla, la tesi della pericolosità della vaccinazione di massa in condizioni di alta circolazione del virus sta faticosamente riemergendo nel dibattito scientifico, anche in sedi prestigiose come la rivista “Nature”. Forse, dovremmo smettere di parlare di fact checking, e prendere atto della mutazione: in epoca di guerra, il fact checking si è trasformato in fake checking, al servizio dell’ortodossia dominante.

Ricapitolando: la dichiarazione di guerra al Covid, scattata con l’inizio della campagna di vaccinazione (27 dicembre 2020), ha reso la vita difficile al dubbio e all’esercizio del senso critico, che pure dovrebbero essere – in una situazione in cui la scienza ha pochissime certezze – le modalità normali di comunicazione. Il tutto in favore di uno stile di comunicazione parziale ed omissivo, dove la chiave di volta non è ciò che si racconta, ma ciò di cui si preferisce tacere.

3 – Tre casi di sproporzionata disattenzione

Lo stile omissivo tocca sia la comunicazione provax, volta alla promozione della campagna vaccinale, sia quella nivax, volta a sollevare dubbi sulla vaccinazione (della comunicazione platealmente novax non mi occupo, essendo facilmente riconoscibile e poco interessante).

E’ il caso di notare, tuttavia, che vi sono anche omissioni che, almeno a prima vista, non hanno una evidente finalità pro o antivax. Sembrano, piuttosto, frutto di un mix di superficialità, disattenzione, gregarismo (il desiderio di parlare di ciò di cui parlano tutti, per parafrasare il romanzo di Francesco Piccolo).

Rientrano in questa categoria tre casi di “sproporzionata disattenzione” a ipotesi scientifiche interessanti e – se vere – potenzialmente ricche di conseguenze pratiche:

  1. la trasmissione aerea del virus (attraverso aerosol, anziché attraverso le goccioline);
  2. il ruolo protettivo della vitamina D;
  3. le basi genetiche della suscettibilità individuale al virus, nonché l’esistenza (da gennaio 2021) di un test per individuare gli italiani suscettibili (circa 1 su 6).

Sul primo punto (trasmissione mediante aerosol), il silenzio è durato circa un anno. Nonostante pubblicazioni scientifiche e appelli di centinaia di scienziati di decine di paesi, per tutto il 2020 l’Oms non ha mai voluto prendere seriamente atto di questa possibilità. In Italia, grazie a una lettera aperta del prof. Giorgio Buonanno, l’allarme sulla realtà della trasmissione mediante aerosol era scattato fin dal 27 marzo 2020 (pochi giorni dopo l’inizio del lockdown), ma è stato completamente ignorato dalle autorità sanitarie, e solo tardivamente preso in qualche considerazione dai mass media.

Sul secondo punto (vitamina D), salvo isolate eccezioni, l’attenzione dei media è stata sempre bassissima, e sostanzialmente succube del Ministero della Salute che, diversamente dalla comunità scientifica, ha sempre cercato di togliere ogni legittimità all’ipotesi di un nesso fra carenza di vitamina D e suscettibilità al Covid. Ancora oggi (settembre 2021), sul sito del Ministero, l’ipotesi è sbrigativamente derubricata a fake news.

Sul terzo punto (basi genetiche), l’esistenza di una copiosa letteratura scientifica, e l’indubbia importanza dell’esistenza di un test (dell’Università di Verona) per individuare i soggetti più a rischio, non sono bastati ad attirare l’interesse dei media e delle autorità sanitarie.

Naturalmente, è comprensibile che Oms, governi, e autorità varie abbiano provato a ignorare e screditare ipotesi che potevano risultare (o quanto meno apparire) in contrasto con le politiche adottate. Meno chiaro perché i media le abbiano quasi completamente ignorate.

4 – Cherry picking, il vizio comune di provax e nivax

Ma torniamo ai tabù dei media provax e nivax.

L’informazione provax è incapace di accettare qualsiasi notizia scientifica che vada contro il totem della vaccinazione, così smorzando il consenso del pubblico, o disturbando i piani del governo. Nell’estate 2021, ad esempio, in piena stagione turistica, è stata messa la sordina alle ricerche che dimostravano che anche i vaccinati possono trasmettere il virus, e che non è affatto vero che fra vaccinati non ci si infetta: l’imperativo categorico era rendere desiderabile la vaccinazione, e favorire il decollo del Green Pass. È presumibile che nascondere i limiti della vaccinazione possa aver spinto la vaccinazione stessa, ma è certo che magnificare acriticamente le virtù protettive dei vaccini ha contributo a ridurre la vigilanza e il rispetto delle regole di prudenza.

Non solo. Fra giugno e agosto la medesima sordina è stata imposta ad altre due notizie potenzialmente in grado di disturbare il manovratore: la notizia che Astra Zeneca, almeno nei primi mesi dalla seconda dose, è molto meno efficace di Pfizer, e la notizia che, dopo 6 mesi, l’efficacia di entrambi i vaccini è gravemente compromessa.

La prima notizia avrebbe reso difficile continuare a vaccinare con AstraZeneca, la seconda avrebbe impedito al governo di cavarsela portando da 9 a 12 mesi la validità del Green Pass, e lo avrebbe costretto ad avviare subito una campagna di rivaccinazione (come si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e molti altri paesi, europei e non).

È comprensibile che il Comitato tecnico-scientifico, che di fatto si muove come un organo politico, abbia dato il suo ok, ma è meno comprensibile che la stampa libera sia rimasta piuttosto quieta, come se lasciare scarsamente coperte milioni di persone (i vaccinati nei primi mesi 2021) non avesse costi umani seri, sotto forma di maggiori  ospedalizzazioni e maggiori decessi.

L’informazione nivax, d’altro canto, pare strutturalmente incapace di leggere i dati. Ogni sorta di espediente logico viene usato per mettere in dubbio l’efficacia del vaccino. Ogni notizia che, a prima vista, suggerisce che i vaccinati si ammalano più dei non vaccinati, viene sbandierata acriticamente.

È interessante rilevare i non sequitur, i trucchi, le ingenuità della anti-informazione nivax. Per esempio il salto logico: anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, dunque è inutile pretendere il Green Pass (come se uno dicesse: qualche automobilista muore nonostante abbia la cintura di sicurezza, quindi non imponiamo le cinture di sicurezza).

Ancora più interessanti le ingenuità alla Cacciari, miseramente franato sul “paradosso di Simpson”, una trappola statistica in cui si può cadere quando la relazione fra due variabili (vaccinazione e decesso) viene analizzata ignorando una terza variabile (l’età) che può capovolgere il segno della relazione. E infatti gli stessi dati invocati da Cacciari per insinuare che il vaccino non funziona, correttamente analizzati (dagli studiosi, ripresi dalla stampa provax), provano semmai l’esatto contrario.

Per non parlare dell’uso partigiano dell’argomento retorico “non ci sono prove incontrovertibili che…”, un grimaldello con il quale diventa possibile giustificare o squalificare ogni sorta di affermazione, dalla pericolosità potenziale dei vaccini (non ci sono prove di effetti negativi sulla fertilità), all’efficacia preventiva della vitamina D (non ci sono prove che funzioni), ai rischi della trasmissione del virus mediante aerosol (non ci sono prove che avvenga).

Eppure, ci si dovrebbe rendere conto che l’argomento della mancanza di prove incontrovertibili è puramente retorico: l’assenza di prove può essere usata, intercambiabilmente, a sostegno di una tesi (non ci sono prove che la terapia X funzioni) così come della tesi contraria (non ci sono prove che la terapia X non funzioni).

È il caso di notare che l’uso strumentale, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’argomento “non ci sono prove incontrovertibili che…” ha impedito, per circa un anno, di riconoscere la possibilità e la pericolosità della trasmissione aerea (mediante aerosol), a dispetto degli innumerevoli studi, appelli e lettere aperte di centinaia di scienziati internazionali. Una cecità che, riducendo la vigilanza negli ambienti indoor, ha sicuramente aumentato, e non di poco, il numero dei morti per Covid.

Alle fine, quel che accomuna i due campi è l’omissione di informazioni rilevanti, e la selezione arbitraria di pezzi di informazione funzionali alla tesi che si vuole difendere, il cosiddetto cherry picking.

5 – Scelta vaccinale e razionalità

Si potrebbe pensare, arrivati a questo punto, che il modo di disinformare di provax e nivax si riduca alla scelta dei tasselli da mettere in campo o, se preferite, alla gestione dei tabù.

In realtà non è tutto, c’è anche la matematica, o meglio la scarsa dimestichezza con la matematica, la logica e la statistica necessarie per destreggiarsi nei meandri dell’epidemia (un esempio lo abbiamo già visto a proposto del paradosso di Simpson). Prendiamo la questione della vaccinazione dei più giovani, ragazzi e bambini. L’atteggiamento prevalente nell’informazione main stream è di presentare l’esitazione vaccinale (ossia la posizione di chi teme la vaccinazione e non ha ancora deciso se vaccinarsi, o se vaccinare i propri figli), come un atteggiamento irrazionale, frutto di ignoranza e disinformazione.

Ma la matematica della scelta razionale, sia nella sua versione utilitarista sia in quella della portfolio selection (che incorpora l’avversione al rischio nelle funzioni di utilità soggettiva), racconta tutta un’altra storia. Per giudicare non razionale la scelta di non vaccinarsi dovrebbero essere noti, come minimo, il rischio di ammalarsi gravemente e i rischi connessi a effetti avversi di breve, medio e lungo periodo. Poiché il primo (rischio di malattia grave) è bassissimo per i più giovani, e i secondi (rischi futuri) sono semplicemente sconosciuti, non c’è nulla di intrinsecamente irrazionale nell’evitare un rischio di entità sconosciuta per proteggersi da un rischio di entità nota e trascurabile, o comunque bassissima (per un under 18 il rischio di decesso per Covid è almeno 10 volte più basso di quello di morire per un incidente stradale).  Tanto è vero che, nelle scienze sociali, la scelta di non vaccinarsi viene tipicamente analizzata con gli strumenti della teoria dei giochi, ossia dentro il paradigma della rational choice.

Nel linguaggio della teoria della scelta razionale: il soggetto è costretto ad operare con probabilità soggettive, in una situazione che – tecnicamente – si definisce di incertezza, perché non solo è impossibile prevedere con esattezza le conseguenze dell’azione, ma non è neppure possibile assegnare delle probabilità obiettive ai vari esiti possibili. Se il soggetto percepisce i rischi futuri (sconosciuti) come superiori ai benefici (stimabili, e fortemente dipendenti dall’età) non si dà un modo scientifico di convincerlo a rifare i calcoli in altro modo. Si può solo tentare di persuaderlo che sopravvaluta i rischi del vaccino, e attendere che la scienza – forte di anni di sperimentazione sul campo – abbia gli elementi per risultare convincente.

Certo si può affermare che chi non si vaccina aumenta il rischio altrui, ma altrettanto bene si può obiettare che un genitore che autorizza la vaccinazione del figlio o della figlia minorenne ha una doppia responsabilità, verso la società ma anche verso la prole, di cui mai vorrebbe mettere a repentaglio l’integrità fisica futura. Nella mia esperienza, questa obiezione viene soprattutto dalle madri, indipendentemente dal livello di istruzione, e non è agevolmente controvertibile. La decisione di vaccinare o non vaccinare un bambino, che politici e mass media tendono a presentare come una questione di senso civico, rientra assai più plausibilmente nel campo delle “tragic choices”, per usare la classica formulazione di Guido Calabresi.

Insomma: la scelta di vaccinarsi è razionale, ma quella di non farlo può esserlo altrettanto, esattamente come può essere razionale tanto scommettere sul verificarsi di un evento quanto scommettere sul fatto che non si verifichi (la differenza la fanno le percezioni soggettive dei decisori, nonché le rispettive propensioni al rischio).

Personalmente propendo per la vaccinazione, ma trovo sorprendenti la superficialità, l’arroganza e il paternalismo con cui – in una parte non piccola della comunicazione pubblica – vengono squalificati coloro che esprimono dubbi.

6 – Due metriche per l’efficacia vaccinale

La mancanza di dimestichezza con la matematica gioca anche altri brutti tiri. Ad esempio, porta a sottovalutare le differenze di efficacia fra i vaccini. Mi spiego con un esempio. Se ci dicono che il vaccino A fornisce una protezione del 95%, e il vaccino B del 90%, tendenzialmente ci facciamo l’idea che fra i due vaccini non vi siano grandi differenze. Invece le differenze sono enormi: il vaccino A riduce il rischio di un fattore 20, il vaccino B di un fattore 10.

Il fattore di riduzione (f), infatti, è legato all’efficacia del vaccino (ε) dalla formula:

f = (1 – ε)-1

Se la si analizza attentamente, ci si rende conto che variazioni di efficacia apparentemente modeste, come quelle legate alla variante (delta piuttosto che alpha), al periodo di vaccinazione (primo o secondo trimestre del 2021), o al vaccino usato (Pfizer o AstraZenca), possono essere associate a enormi differenze nella protezione dal rischio, anche da una amplissima protezione 33 (efficacia del 97%) a una modesta protezione 3 (efficacia del 67%).

Che i mass media, quando parlano di efficacia, usino sempre la metrica di ε e non quella di f induce il pubblico a non percepire le grandissime differenze che possono sussistere fra situazioni e fra vaccini.

7 – L’aritmetica dell’immunità di gregge

Il caso più clamoroso di incomprensione dell’aritmetica dell’epidemia è però quello della cosiddetta immunità di gregge. Uno degli argomenti più ripetuti a favore della vaccinazione di massa è che, grazie ad essa, raggiungeremo l’immunità di gregge. L’argomento è spesso accompagnato da percentuali-obiettivo, tipo “dobbiamo vaccinare almeno il 70% degli italiani”, e dalla tesi secondo cui – proteggendo una certa percentuale della popolazione – anche i non vaccinati risulterebbero protetti (una curiosa applicazione del concetto di free rider).

Ma questi argomenti non sono semplicemente fuorvianti, sono del tutto errati. Intanto non è vero che, raggiunta la percentuale che garantisce l’immunità di gregge, i vaccinati proteggono anche i non vaccinati. Il significato della soglia di copertura vaccinale necessaria (70% nell’esempio) è solo che, se la si raggiunge (e se si adottano alcuni assunti semplificatori sulle interazioni sociali), l’epidemia si ferma, e se la si supera – prima o poi – l’epidemia si spegne. In altre parole: i non vaccinati continuano ad ammalarsi e morire, ma il numero di nuovi casi diventa sempre più piccolo, fino ad azzerarsi in un futuro più o meno lontano.

La formula standard per calcolare la copertura vaccinale (Vc) che garantisce l’immunità di gregge è:

Vc = 1-1/R0

dove R0 è il numero di riproduzione di base, ossia il numero medio di persone contagiate da un soggetto che si ammala. Il valore di R0 era circa 3 all’inizio dell’epidemia, è diventato circa 5 con la variante alpha, e circa 8 con la variante delta. In concreto, vuol dire che con il virus originario ci sarebbe bastato vaccinare 2/3 della popolazione, con la variante alpha (sopraggiunta nell’inverno 2020-2021) avremmo dovuto vaccinare l’80% della popolazione, con la variante delta (divenuta prevalente nella primavera del 2021) dovremmo vaccinare l’87.5% della popolazione. L’obiettivo è chiaramente irraggiungibile, a meno di imporre l’obbligo vaccinale e abbassare ancora un po’ l’età minima dei vaccinabili.

Ma supponiamo di farlo e che, con le buone o con le cattive, si riesca a vaccinare il 95% della popolazione. Basterebbe a spegnere l’epidemia?

La risposta è no, perché la formula dell’immunità di gregge vale per i vaccini sterilizzanti, che immunizzano completamente chi si vaccina. Il che vuol dire: chi si vaccina non può infettarsi, né trasmettere il virus ad altri. Se il vaccino è leaky, cioè non sterilizzante, vale una formula modificata:

Vc = (1-1/R0)/E

dove il termine E rappresenta quel che alcuni studiosi chiamano “efficienza vaccinale”, ossia la capacità media di impedire reinfezioni e trasmissione ad altri.

L’efficienza di un vaccino sterilizzante è per definizione 1, ossia è pari al 100%, e genera la prima formula, in cui E non compare. Quella di un vaccino leaky è difficile da calcolare, se non altro perché dipende dal mix di varianti presente in un dato momento in un certo luogo, ma certamente è ampiamente inferiore a 1.

Supponendo, ottimisticamente, che sia 0.80, il valore di Vc passa da 0.875 (per E=1) a 1.094, il che significa: non basta vaccinare l’87.5% della popolazione, ma occorrerebbe vaccinare il 109.4%.

Un risultato chiaramente assurdo, che però ha una interpretazione concreta molto chiara e tranchant: con un vaccino leaky, a meno che la sua efficienza sia pari o superiore all’87.5%, non basta neppure vaccinare l’intera popolazione.

Tutto questo è perfettamente noto agli specialisti e, dopo un articolo apparso su “Nature” nel 2021, è ormai dato per scontato nella letteratura scientifica. Nella comunicazione pubblica invece no, si continua a alimentare l’illusione che, se ci vaccineremo tutti, potremo usufruire dell’immunità di gregge.

Il tutto in un’epoca in cui non si fa che parlare di precision journalism, computer assisted reporting, data journalism, fact checking, eccetera eccetera. Forse c’è qualcosa che non va.


Riferimenti bibliografici

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Verso una società parassita di massa?

Da qualche tempo le spinte per l’abolizione o la modifica del reddito di cittadinanza si stanno moltiplicando. Contro il reddito di cittadinanza è da sempre schierata la destra, ma recentemente il reddito è stato attaccato anche dal partito di Renzi, che intende promuovere un referendum per la sua abolizione. Sulla necessità di modificarlo ormai convengono tutti (persino i Cinque Stelle), si tratterà solo di vedere come, quanto e quando.

Le critiche al reddito di cittadinanza sono numerosissime, e tutte vecchiotte: troppe truffe, specie da parte di beneficiari stranieri (che talora nemmeno abitano in Italia); flop dei navigator, incapaci di offrire occasioni di lavoro a un numero adeguato di richiedenti; mancata applicazione delle norme che prevedevano di impiegare i beneficiari in opere di pubblica utilità; ritiro dal mercato del lavoro dei percettori dell’assegno.

Quest’ultima è la critica più frequente, sistematicamente ripresa dai media e non solo. In una recente intervista, l’imprenditore Flavio Briatore è arrivato ad affermare che ormai “non c’è alcun giovane che ha voglia di lavorare durante la stagione estiva’’ e che ‘‘il governo doveva sospendere il reddito da maggio a ottobre” dando “la possibilità ai giovani di fare la stagione”.

E sono innumerevoli le testimonianze di imprenditori, esercenti, datori di lavoro in genere che, da tempo, denunciano la difficoltà di trovare camerieri, bagnini, cuochi, commessi, operai, informatici, meccanici, autisti, e ogni sorta di altri tipi di lavoratori, a causa del reddito di cittadinanza. Il meccanismo è chiaro: se l’assunzione è regolare, si perde automaticamente il reddito di cittadinanza, se è irregolare si rischia di perderlo in caso di controlli. Il risultato è il medesimo: una carenza di manodopera.

Sono sempre stato contrario al reddito di cittadinanza di marca grillina, e non proverò certo a difenderlo in questa sede. Voglio però sollevare un interrogativo: siamo sicuri che il grosso del problema della mancanza di manodopera stia nel reddito di cittadinanza?

Io temo di no. Guardiamo alla società italiana come era prima del reddito di cittadinanza e subito prima del Covid. Ebbene, già allora la società italiana era diventata una “società signorile di massa”, con un numero spropositato di persone – giovani e meno giovani – che si potevano permettere il lusso di consumare senza lavorare. Fra le società avanzate, già allora l’Italia (insieme alla Grecia) deteneva il record per numero di adulti inoccupati e per numero di Neet (sigla che indica i giovani che non lavorano, non studiano, né stanno seguendo un training). Già allora gli imprenditori denunciavano drammatiche carenze di manodopera specializzata e di tecnici. Già allora il tempo di lavoro era diventato, nella vita della maggior parte delle persone, una quota molto ridotta del tempo di vita, a tutto beneficio dello svago, della navigazione su internet, delle vacanze, della cura di sé, e più in generale delle attività del tempo libero. Già allora, grazie alle riforme del mercato del lavoro intervenute dopo la drammatica crisi del 2008-2011, era enormemente cresciuto il numero di percettori di sussidi. Già allora, anche nelle regioni del Nord, si erano affermati modelli di permanenza sul mercato del lavoro fondati su varie miscele di lavoro regolare, lavoro irregolare e sussidi vari. Già allora, in molte situazioni, i salari erano molto bassi, o erogati in nero, e i giovani dotati di più talento, intraprendenza e risorse familiari prendevano la via dell’emigrazione.

Insomma, rispetto a tutto questo, il Covid e il reddito di cittadinanza si sono limitati a esasperare fenomeni ampiamente presenti già prima. Durante il Covid sono stati distrutti 1 milione di posti di lavoro, ma a dispetto di ciò il numero di persone che cercano un lavoro anziché aumentare è diminuito, peraltro proseguendo un trend già in atto prima del Covid. In compenso, il numero di persone che usufruiscono di sussidi di vario tipo (disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, pensione di cittadinanza, eccetera) è letteralmente esploso. Di questa esplosione il reddito di cittadinanza è solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante.

Possiamo riassumere dicendo: in Italia è crollato il numero di persone pronte a lavorare, e si sono moltiplicati gli strumenti che, come il reddito di cittadinanza, disincentivano la ricerca di lavoro. L’Italia sta diventando una società parassita di massa, in cui una minoranza iperattiva, e talora supersfruttata, assume su di sé il carico di produrre ricchezza, mentre la maggioranza consuma senza partecipare direttamente alla produzione del reddito, e dipende sempre più dall’assistenza pubblica e dalla benevolenza dei familiari occupati.

E’ un problema, o possiamo perseverare serenamente su questa strada come abbiamo fatto negli ultimi 20 anni?

Sì, è un problema, perché la mancanza di forza lavoro fa sì che l’economia cresca largamente al di sotto del suo potenziale, e questo, con la montagna di debiti che stiamo contraendo, non possiamo più permettercelo. Ma è precisamente questo che è successo quest’anno, e si è accentuato durante l’estate: a una domanda turistica strabordante, indotta dalla crescita del turismo interno e dal desiderio di auto-risarcimento degli italiani dopo il Covid, i datori di lavoro sono riusciti a far fronte solo in parte perché non ci sono abbastanza persone disposte a lavorare alle condizioni offerte dal mercato (non di rado umilianti) e in presenza di una selva di disincentivi al lavoro. Una strozzatura che si è aggiunta ai numerosi problemi storici del mercato del lavoro italiano: la quasi totale assenza delle politiche attive, l’ostilità dei giovani al lavoro manuale e alle professioni tecniche, il ridotto numero di laureati (specie fra i maschi), la diffusione del lavoro nero, il basso livello dei salari e della produttività.

In queste condizioni, anche l’eventuale soppressione o ridimensionamento del reddito di cittadinanza, pur auspicabile come misura elementare di buon senso, rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 settembre 2021




Verso la terza dose?

Nell’estate scorsa, in Italia, il Covid pareva quasi sconfitto. Conte faceva il pavone, il ministro Speranza scriveva il suo libro autocelebrativo (Perché guariremo), Zangrillo assicurava che il virus era “clinicamente morto”. Si è visto poi, appena riaperte le scuole, che quella estiva era stata solo una tregua, e il virus era tutt’altro che morto.

E oggi?

Oggi le cose sono profondamente cambiate, non solo in Italia. La variante delta, 2-3 volte più contagiosa del virus originario, ha reso la lotta alla pandemia molto più difficile. Nello stesso tempo, fortunatamente, la campagna di vaccinazione l’ha resa più facile.

Ma qual è il saldo finale?

Sfortunatamente è negativo: nella maggior parte dei paesi, la variante delta si rivela più forte del vaccino. Non già nel senso che il vaccino non funzioni contro di essa, ma nel senso che non basta. E’ un timore che avevo espresso diversi mesi fa, ma oggi quel timore è purtroppo divenuto una certezza: a dispetto del vaccino, i contagi, le ospedalizzazioni e i decessi di questa estate sono maggiori di quelli dell’estate scorsa non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate, con poche eccezioni. In breve: ci apprestiamo ad archiviare le vacanze estive in condizioni peggiori di quelle dell’anno scorso.

Come è stato possibile? Perché la vaccinazione di massa non è stata sufficiente a far arretrare l’epidemia?

Se diamo un’occhiata alla mappa del contagio nelle società avanzate, non è difficile rendersi conto che, in questa estate almeno, un fattore cruciale è stata la vocazione turistica di ogni paese. In questo momento l’epidemia galoppa nei paesi ad alto impatto turistico, come Spagna, Francia, Italia, Grecia, Croazia, mentre è ai minimi, talora addirittura al di sotto dei livelli dell’estate scorsa, nella maggior parte dei paesi (relativamente) meno attrattivi: non solo i paesi ex comunisti come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, ma anche i paesi scandinavi e dell’area germanica. Si conferma così una verità difficile da digerire, specie per un paese come il nostro: il turismo internazionale è un potente moltiplicatore della circolazione del virus.

Se guardiamo più attentamente le cose, però, non possiamo non notare alcune anomalie, talora piccole, altre volte macroscopiche. C’è il caso dell’Islanda, che ha vaccinato quasi tutti e ciononostante è alle prese con un’esplosione del contagio. Anche in questo caso la spiegazione, verosimilmente, è l’apertura al turismo: l’epidemia è esplosa solo quando (fine giugno), per sfruttare la stagione turistica, il paese ha deciso di abolire tutte le misure di distanziamento e di autoprotezione, fidando esclusivamente nella vaccinazione: nel giro di pochissime settimane i casi sono passati da meno di 10 al giorno a più di 300, ossia 1 ogni mille abitanti (è come se noi ne avessimo 60 mila al giorno).

Ma ci sono anche tre anomalie macroscopiche: Israele, Regno Unito, Stati Uniti. Questi tre paesi sono stati i pionieri delle vaccinazioni, ma sono tutti e tre in grave difficoltà. Come mai?

La risposta che si sta facendo strada è: forse sono nei guai proprio perché sono partiti prima con le vaccinazioni. Il sospetto si è consolidato nelle ultime settimane quando diversi studi hanno mostrato che le persone vaccinate più precocemente (diciamo tra dicembre 2020 e febbraio-marzo 2021) presentavano un rischio di infezione sensibilmente più alto delle persone vaccinate più tardi. Questa osservazione, accoppiata con la scoperta di una rapida diminuzione degli anticorpi dopo il quarto mese dalla seconda dose, ha portato alla ribalta l’idea di procedere subito (fin da settembre) alla somministrazione di una terza dose di vaccino non solo ai soggetti più fragili o immunodepressi, ma anche a tutti gli altri, o perlomeno agli anziani.

E’ fondata l’ipotesi che sia opportuna una terza dose? E soprattutto: a partire da quando? E con quale vaccino?

La risposta spetta prevalentemente alle autorità sanitarie, che finora appaiono dubbiose e divise. E, stranamente, non hanno ancora risposto a una domanda fondamentale: come mai è evaporata la promessa di produrre vaccini a mRNA “riprogrammabili”, ossia rapidamente adattabili alle varianti che via via emergono? (a quel che si sa, solo ora Pfizer e Moderna stanno provando a sviluppare vaccini mirati sulla variante delta).

Quel che posso dire, come statistico, è solo che le evidenze empiriche provenienti dagli studi condotti in Israele, Regno Unito e Stati Uniti sono decisamente convincenti sul fatto che la protezione dal rischio di infettarsi diminuisca rapidamente (e non di poco) a partire da 4-5 mesi dalla seconda dose, ma sono ancora incerte per quanto riguarda l’entità precisa di tale diminuzione. Troppi, infatti, sono i fattori che possono distorcere le stime quando si lavora con dati osservativi (anziché sperimentali, come negli studi clinici randomizzati). I soggetti vaccinati per primi, ad esempio, sono diversi da quelli vaccinati successivamente non solo per le loro condizioni di salute e di esposizione al rischio, ma anche per il tipo di variante con cui hanno dovuto fare i conti (a gennaio dominava la alpha, da giugno domina la delta). Se non si vuole incorrere in clamorosi fraintendimenti dei dati (come è capitato di recente all’ingenuo Cacciari), occorre leggere con estrema cautela le stime sul crollo di efficacia dei vaccini dopo il quarto mese, e distinguere accuratamente l’efficacia rispetto all’infezione, il cui deterioramento è più marcato, e l’efficacia rispetto a malattia grave, ospedalizzazione e decesso, il cui deterioramento – fortunatamente – è molto meno ampio.

Quel che è certo, invece, è che la percentuale di copertura vaccinale (vaccinati con seconda dose rispetto alla popolazione vaccinabile), statistica spesso usata per dire quanto un paese è protetto, sta diventando una misura sempre più fuorviante. Un paese può aver vaccinato l’85% della sua popolazione vaccinabile (che sembra un’ottima percentuale), ma può essere gravemente scoperto perché la popolazione non vaccinabile è molto ampia, o perché troppi vaccinati stanno perdendo la protezione del vaccino, o per entrambi i motivi (è il caso di Israele, paese giovane, e che ha iniziato a vaccinare prima di altri). In altre parole: il tasso di protezione di un paese non è dato dalla quota di popolazione vaccinabile raggiunta con la seconda dose, ma dalla quota di popolazione totale (vaccinabile e non) che non solo è stata doppiamente vaccinata, ma non ha ancora gravemente compromesso il proprio grado di protezione.

Da questo punto di vista l’Italia è, per ora, in una posizione di vantaggio rispetto ad altri paesi: abbiamo pochissimi giovani, e abbiamo pochi vaccinati precoci (potremmo, ironicamente, chiamarlo “paradosso Arcuri”). E’ probabilmente questa la ragione per cui, rispetto agli altri paesi ad alto turismo, l’Italia ha oggi una situazione un po’ meno compromessa.

Quindi la domanda diventa: vogliamo metterci rapidamente in condizione di mantenere e accrescere il nostro grado di protezione, o preferiamo cullarci nell’illusione che i vaccini mantengano a lungo la loro efficacia?

Nel primo caso, la strada è inevitabilmente quella di iniziare molto presto a somministrare terze dosi, come già stanno facendo o si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e vari altri paesi. Nel secondo caso la strada è quella su cui si sta orientando in questi giorni il Governo: somministrare le terze dosi solo ad una piccola parte della popolazione e, per gli altri, stabilire per legge che l’efficacia del vaccino dura 12 mesi (anziché 9 come si credeva, o 6 come suggeriscono le analisi più recenti).

Temo che, come quasi sempre abbiamo fatto in passato, anche questa volta troveremo più comodo cambiare le soglie di pericolo, piuttosto che limitare in modo effettivo i pericoli: cambiare la scadenza del Green Pass è più facile, e forse più popolare, che organizzare una campagna di rivaccinazione di massa.

 

Pubblicato su Il Messaggero del 28 agosto 2021




Rave party, perché le istituzioni stanno a guardare

Il rave party che, nel comune di Valentano, ha devastato un’azienda agricola, provocato un morto, danneggiato le attività turistiche, messo a repentaglio la salute pubblica, ha giustamente sollevato parecchi interrogativi. Perché il Ministero dell’interno non ne sapeva nulla? Perché, una volta occupata illegalmente l’area, le forze dell’ordine hanno atteso ben cinque giorni prima di intervenire? Perché in Francia (il paese a partire dal quale vengono organizzati la maggior parte dei rave) la legge punisce i rave, mentre in Italia la Corte Costituzionale (con sentenza del 21 luglio 2017) ha ribadito che l’articolo 17 della Costituzione li tutela in quanto manifestazioni della libertà di riunione?

Sono domande giuste e naturali, ma possono anche essere fuorvianti. Se ci facciamo solo questo genere di domande, rischiamo di non cogliere l’aspetto più inquietante di questa vicenda. Che non è che le autorità abbiano chiuso un occhio in questa particolare circostanza, ma che lo stiano facendo sistematicamente da almeno 15 mesi, ossia da quando – nel maggio dell’anno scorso – è terminato l’unico vero lockdown, quello di marzo e aprile 2020.

Da allora la linea è sempre stata la medesima: emettere ogni sorta di obbligo e divieto, e farne rispettare solo alcuni.

Quali?

Fondamentalmente quelli che gravano sul settore privato: bar, ristoranti, palestre, parchi, esercizi commerciali, aziende. Quanto agli altri, che competerebbero all’autorità pubblica, nada de nada: nessun intervento incisivo sull’edilizia scolastica, nessun intervento sul trasporto locale, nessuna sorveglianza sugli assembramenti da movida, festeggiamenti calcistici, discoteche abusive, affollamenti vari sui traghetti, nelle isole, nei luoghi di vacanza. In breve: si è scelto di chiudere un occhio.

Di qui alcune conseguenze, tutte prevedibili. La gente ha capito subito che alcune regole erano grida manzoniane, che si potevano tranquillamente ignorare visto che nessuna autorità si prendeva la briga di farle rispettare. Nel nostro paese, come ha notato Carlo Nordio nei giorni scorsi, è montato un sentimento di ingiustizia, una frattura fra quanti sono costretti all’osservanza scrupolosa delle norme e quanti le possono impunemente trasgredire. E infine, conseguenza capitale, l’inerzia delle autorità politico-sanitarie ha confezionato una bomba a orologeria ad alto potenziale, pronta a deflagrare in autunno.

Poiché non a tutti è chiaro come tale bomba sanitaria sia stata predisposta, mi soffermo brevemente sull’aritmetica dell’epidemia. In un anno, ossia fra l’estate scorsa e oggi, il tasso di letalità del Covid si è ridotto di un fattore 4, grazie all’efficacia dei vaccini nel prevenire ospedalizzazione e decesso; ma il numero di contagiati è aumentato di circa 12 volte, grazie alla scelta politica di puntare sul green pass e chiudere un occhio sul rispetto delle regole. Il combinato disposto di questi due input è la triplicazione del tasso di mortalità: se oggi i morti per abitante sono 3 volte quelli di un anno fa è perché il freno dei vaccini (1/4 di letalità) è stato annullato e sovrastato dall’acceleratore del contagio (cresciuti di 12 volte). Né le cose vanno meglio se ragioniamo sul numero dei ricoveri ospedalieri o sulle terapie intensive, che nel giro di un anno sono circa quadruplicati.

Perché dico che quella che ci hanno preparato è una bomba a orologeria?

La ragione è semplice. Nell’autunno scorso, il disastro è stato innescato dal triplice impulso del rientro dalle vacanze, della ripresa del lavoro, del ritorno a scuola (e verosimilmente pure dall’appuntamento elettorale). Oggi siamo più preparati di allora a fronteggiare il disastro perché 1 italiano su 3 è vaccinato, ma in compenso l’onda che ci travolgerà è molto più alta (circa 12 volte più alta!) perché il virus circola molto di più. E’ come se allora fossimo stati sorpresi da una mareggiata, e oggi ci sentissimo più sicuri perché ci hanno dato un salvagente, e non volessimo capire che quel che è in arrivo è uno tsunami, non una mareggiata.

E qui torniamo alla domanda delle domande: perché non lo vogliamo capire? O meglio: perché chi ci governa ha scelto di non dircelo, e di lasciar correre il virus?

Temo che la risposta sia la stessa che si deve dare alla domanda sul rave di Valentano e sulle innumerevoli altre violazioni su cui, specie in questi mesi estivi, si è scientemente preferito lasciar correre. Ed è una risposta di natura sociologica o, se preferite, di natura storico-antropologica.

Nelle nostre società, ricche e arrivate, il divertimento, la vacanza, l’evasione, il rito dell’aperitivo sono assurti – nella coscienza dei cittadini, non meno che in quella dei governanti – a diritti fondamentali e inviolabili della persona. Nel caso dei giovani, categoria che ormai si prolunga ben oltre il traguardo della maggiore età, questo diritto fondamentale si arricchisce dell’ulteriore diritto a consumare il divertimento in massa, in forme più o meno sfrenate, di cui il ballo e i suoi annessi (alcol e sostanze) sono le manifestazioni più tipiche. Può succedere così che, in tv, una ragazzina milanese di 10 anni affermi, seriamente e senza un filo di ironia, che non andare al ristorante per ben due mesi “è stato terribile”, come se avesse subito un’aggressione o uno stupro. E che decine e decine di giovani intervistati sfilino ogni sera in tv a spiegarci che sì, lo sanno perfettamente che ballare è pericoloso e proibito, ma che loro no, proprio non possono farne a meno, dopo mesi di chiusure, limitazioni, sofferenze inenarrabili.

Eppure dovrebbero sapere che, nella storia dell’umanità e delle civiltà, non è mai esistita una generazione di giovani con tanti privilegi come quelli goduti da quella attuale. Buona parte dei loro padri, nonni e bisnonni dovevano andare in guerra, o iniziavano a lavorare a 14 anni,  non avevano alcuna “paghetta”, né le innumerevoli protezioni, esenzioni e facilitazioni che genitori e insegnanti di oggi riservano a ragazzi e ragazze. In un mondo normale, gli adulti glielo ricorderebbero, e la classe dirigente non spenderebbe il suo tempo a compatirli e a descriverne le indicibili sofferenze. Qualcuno troverebbe il coraggio di spiegare che sì, per tutti è stato ed è difficile, ma certi comportamenti, di cui il rave di Valentano è solo l’esempio più eclatante, hanno un costo tragico in termini di vite umane sacrificate. E che è esistito un tempo, neanche poi così remoto, in cui la maggioranza dei giovani era in grado di divertirsi e corteggiare senza sballarsi.

Quel tempo è finito, ma con esso è finito anche il tempo della solidarietà, una parola vuota che ha perso ogni concretezza e riferimento al mondo reale. Se solidarietà e spirito civico avessero ancora un posto nelle nostre vite, il rispetto delle elementari regole di prudenza sarebbe la norma, i nostri governanti e i media la smetterebbero di adularci (“durante il Covid gli italiani si sono comportati molto bene”), le violazioni delle regole sarebbero sanzionate con prontezza e severità. E forse, in questi giorni, anziché assistere a surreali dibattiti sulla crudeltà del Green pass e l’inaccettabile chiusura delle discoteche, vedremmo fiumi di ragazzi e ragazze, legioni di femministe, cortei di militanti LGBT, sfilare uniti a sostegno delle vittime delle violenze islamiche in Afghanistan. Una tragedia troppo lontana e vera per suscitare qualche emozione in una società arrivata.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 agosto 2021




La prova di autunno

L’evoluzione dell’epidemia nelle ultime settimane riserva molte buone notizie, e altrettante cattive. E’ una situazione ideale per il cosiddetto cherry picking, che consiste nel selezionare solo i dati che supportano la posizione che si intende difendere: se vuoi rassicurare, selezioni solo le buone notizie, se vuoi terrorizzare solo quelle cattive.

Proviamo invece a non fare cherry picking, e a riferire sia le buone sia le cattive notizie, cominciando dalle buone.

La notizia più importante è che, fra le società avanzate (e in particolare nell’Unione Europea),  l’Italia è in questo momento uno dei paesi in cui il tasso di mortalità è più basso. Fra i grandi paesi con istituzioni occidentali fanno meglio dell’Italia solo Giappone, Australia e Canada, la Germania è pressappoco alla pari, mentre fanno decisamente peggio Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Israele. La circostanza interessante è che Israele, Regno Unito e Spagna hanno vaccinato più di noi, e cionondimeno hanno un tasso di mortalità più alto, nonché una dinamica della mortalità più preoccupante. Difficile spiegare perché, ma il minimo che si possa dire è che, evidentemente, vaccinare a tappeto può non essere sufficiente. Una conclusione supportata anche da un altro caso, piccolo ma significativo: l’Islanda ha vaccinato quasi tutta la popolazione vaccinabile (più ancora di Israele), ma questo non le ha impedito di registrare un’impennata dei nuovi casi non appena – a fine giugno –  ha deciso di riaprire le frontiere al turismo.

C’è anche un’altra buona notizia: il tasso di letalità del Covid (rischio di morire se contagiati) è diminuito sensibilmente rispetto all’anno scorso. Impossibile, con i dati disponibili, stabilire esattamente di quanto, ma è verosimile che la diminuzione sia almeno in parte imputabile ai vaccini (una parte della diminuzione è invece dovuta, banalmente, all’abbassamento dell’età mediana dei contagiati).

Le buone notizie importanti, però, si fermano qui, mentre quelle cattive abbondano.

La prima è che in questa estate la percentuale di persone contagiate, anche tenendo conto del diverso numero di tamponi, risulta molto più alta di quella dell’estate scorsa. Ciò è dovuto, innanzitutto, alle condizioni di riapertura: quando, a maggio, abbiamo riaperto le attività, il numero di contagiati era almeno 5 volte più alto che nel maggio 2020. Di qui una curva epidemica 2021 costantemente più alta di quella del 2020. In concreto ciò ha comportato una sorta di lotta fra le due forze fondamentali che governano l’epidemia: la probabilità di contrarre il virus, molto più elevata che l’anno scorso, e la probabilità di morire una volta contratto il virus (letalità), in discesa grazie ai vaccini.

Ma chi ha vinto?

Purtroppo ha vinto la probabilità di contrarre il virus, che è aumentata più di quanto sia diminuito il tasso di letalità. Noi oggi abbiamo un numero di morti giornaliero che è il triplo di quello di un anno fa, e un numero di ricoverati in terapia intensiva che è addirittura il sestuplo. Certo, qualcuno può provare a rassicurarci dicendo che a morire o finire in terapia intensiva sono prevalentemente i non vaccinati, ma resta il fatto che oggi – a dispetto dei vaccini – si muore molto di più che un anno fa.

La ragione di fondo è che il vaccino, pur efficace nel mitigare il decorso della malattia, non lo è a sufficienza nel limitare il contagio in presenza di una variante ad alta trasmissibilità come la variante indiana (o delta), massicciamente presente in Italia. E, se il numero di contagiati aumenta a ritmi insostenibili come quelli delle ultime settimane (Rt=1.5), anche il numero di decessi è destinato a riprendere la sua corsa, come del resto già si vede dai dati degli ultimi giorni.

Che succederà?

Quello che possiamo dire con ragionevole certezza è che, di qui all’inizio dell’autunno, le principali condizioni che determinano la dinamica dell’epidemia saranno in peggioramento. Il rientro dalle ferie infatti comporta, in successione: minore tempo trascorso all’aperto, trasmissione del virus dai giovani (per lo più asintomatici) agli adulti e agli anziani, maggiori possibilità di contagio a scuola e sui mezzi pubblici, per tacere dei rischi dell’appuntamento elettorale (3-4 ottobre). In breve: l’unica forza in contro-tendenza sarà il completamento della campagna vaccinale.

Così stando le cose è facile prevedere che, ancora una volta, la politica si troverà costretta a ricorrere a chiusure delle attività economiche, limitazioni della mobilità, didattica a distanza. In altre parole: l’ennesimo sacrificio sarà richiesto ai cittadini, e in particolare al settore privato.

Si sarebbe potuto evitare?

Forse sì, ma solo con una politica radicalmente diversa. La politica attuata da entrambi i governi che hanno gestito l’epidemia è stata basata su due pilastri: lasciar correre il virus finché gli ospedali sono vicini al collasso, scaricare sul settore privato i costi dell’aggiustamento. Ma con questi pilastri, domare l’epidemia è semplicemente impossibile, e salvare l’economia diventa difficile.

Il vero problema, infatti, è che cosa succede nella stagione fredda, quando la circolazione del virus non è più frenata dalla vita all’aperto. Non è detto che basterebbe, ma stupisce che quasi nulla si sia fatto per garantire la purificazione dell’aria nelle scuole, per diminuire gli assembramenti sui mezzi pubblici, per coinvolgere i medici di base nella gestione dei malati Covid. Eppure qualcosa si poteva fare, sia l’anno scorso che quest’anno, pensandoci in tempo. Se si fosse fatto qualcosa, i sacrifici richiesti ai lavoratori autonomi e al mondo della scuola sarebbero stati molto minori, e ora potremmo affrontare il rientro dalle vacanze con maggiore tranquillità.

Come mai quasi nulla è stato fatto, nonostante le proposte cruciali su scuola, trasporti e cure domiciliari siano state ripetutamente avanzate sia dagli studiosi, sia dall’opposizione parlamentare?

E’ una domanda alla quale non so fornire una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 agosto 2021