Il vaccino non basta, la qualità dell’aria è cruciale

A tre settimane dalla ripartenza delle scuole, che cosa stia succedendo nelle aule scolastiche nessuno può saperlo con certezza. E il motivo è tanto semplice quanto triste: il governo ha deciso di non attivare un monitoraggio sistematico, capace di segnalare tempestivamente le criticità.

Perché, nonostante da più parti lo si sia invocato, nessun monitoraggio è stato predisposto?

Poiché non riesco a credere che, alla base, ci possa essere la pura incapacità di predisporlo (per un breve periodo, l’anno scorso, ci era riuscita persino la ministra Azzolina), sono portato a pensare che esistano dei motivi sostanziali.

Il primo che viene in mente è che le nostre autorità siano convinte che la vaccinazione sia sufficiente a tenere sotto controllo l’epidemia. Così si spiega anche il nulla di fatto, nelle scuole come altrove, sul controllo della qualità dell’aria.

Ma è fondato questo approccio?

Temo di no, e provo a spiegare perché.

Controllare un’epidemia non può significare semplicemente tenere basso il numero dei morti, obiettivo da cui peraltro siamo ancora lontani (al ritmo attuale il conto è di 20 mila morti l’anno), ma significa anche limitare il rischio di infezione che, anche quando non conduce alla morte, può comportare malattia e danni alla salute più o meno duraturi (il cosiddetto long-Covid). Ebbene, ormai esiste un’ampia evidenza empirica sia del fatto che i vaccini proteggono poco dal rischio di infezione, sia del fatto che anche i vaccinati possono trasmettere il virus. Per non parlare di un altro dato ormai assodato: l’efficacia del vaccino declina rapidamente dopo 4-5 mesi dal completamento della vaccinazione.

In concreto, questo vuol dire che, con la fine dell’estate e il ritorno della vita al chiuso, la velocità di circolazione del virus tenderà ad aumentare (di un fattore 4, secondo le mie stime), e diventerà quindi cruciale limitarne la diffusione negli ambienti a più alto rischio.

Ma quali sono?

Non è semplicissimo stabilirlo con esattezza, ma ormai vi sono pochi dubbi sul fatto che, dopo l’ambiente domestico, il luogo più rischioso sono le aule scolastiche. A renderle pericolose concorrono in modo cruciale la densità (troppi allievi e distanziamento insufficiente), la durata dell’esposizione (più di 4 ore), e soprattutto la mancanza quasi universale di dispositivi di controllo della qualità dell’aria (solo nella regione Marche è stato avviato un esperimento di ricambio sistematico dell’aria con la ventilazione meccanica controllata). A questi fattori di rischio strutturali si aggiunge lo scarso numero di alunni vaccinati: il vaccino esiste solo per chi ha almeno 12 anni, e fra i 12-19enni la percentuale di vaccinati è ancora troppo bassa.

Ecco perché la latitanza del governo e di quasi tutte le Regioni è inquietante. E’ da un anno e mezzo che ingegneri e scienziati internazionali sollevano il problema della trasmissione del virus mediante aerosol, e della conseguente necessità di garantire il monitoraggio della qualità dell’aria e la ventilazione negli ambienti chiusi (vedi articoli e interviste del prof. Giorgio Buonanno). Secondo uno studio di imminente pubblicazione del fisico Mario Menichella, la rinuncia a installare dispositivi di VMC (ventilazione meccanica controllata) è sufficiente, da sola, a moltiplicare di circa un fattore 10 la circolazione del virus nelle aule scolastiche.

E’ difficile sottovalutare l’importanza di questi risultati. Senza un controllo rigoroso della qualità dell’aria le scuole sono destinate a trasformarsi in focolai dell’epidemia, come già sta succedendo in queste settimane. E il numero di classi costrette alla Dad (didattica a distanza) non può che crescere, come già si intuisce dalle frammentarie notizie di stampa finora apparse.

Che fare, arrivati a questo punto?

Intanto, direi di smetterla di proclamare “mai più Dad”, o “la nostra priorità è il ritorno della didattica in presenza”. Eh no, questo cari politici non potete dirlo perché, se la vostra priorità fosse stata questa, avreste affrontato per tempo i problemi delle classi troppo numerose, del ricambio dell’aria nelle aule, della saturazione dei mezzi pubblici, e mai avreste osato ipotizzare misure come l’abbandono delle mascherine “se tutti sono vaccinati”, quasi che i vaccinati fossero perfettamente immunizzati e incapaci di tramettere il virus.

Però un paio di cose concrete e fattibili ci sarebbero.

La prima ha un costo irrisorio (50-100 euro per classe), ed è di usare in ogni aula un dispositivo di controllo del livello dell’anidride carbonica, in modo da capire quando è assolutamente indispensabile aprire le finestre. Si può fare in 1 settimana.

La seconda costa molto di più (4-5 mila euro per classe), ed è di varare un grande piano di installazione della VMC (ventilazione meccanica controllata) in tutte le aule di tutte le scuole. Si può fare in qualche mese, pianificando i relativi lavori per le vacanze di Natale. Il costo totale è di circa 1.5 miliardi.

Su questa linea si stanno già muovendo spontaneamente alcune scuole, e almeno una Regione. Non si vede perché le loro esperienze debbano restare isolate. Sempre che non si voglia confessare, una volta per tutte, che il ritorno alla scuola in presenza non è affatto una priorità.

 Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2021




Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?

Fino a pochi mesi fa c’era ancora qualcuno che immaginava un autunno catastrofico. Fine del blocco dei licenziamenti, 1 o 2 milioni di posti di lavoro bruciati, un esercito di disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro.

Oggi no, chi ha occhi per vedere non può non prendere atto che lo scenario che si sta delineando è l’opposto di quello previsto da tanti: quel che manca non sono i posti di lavoro, ma sono i lavoratori. A mia memoria non era mai successo che la difficoltà di trovare personale, specie per i piccoli esercizi, fosse così tangibile, generalizzata e conclamata. Io stesso, in questi mesi, ho raccolto diverse testimonianze sconcertanti. Ci sono attività che, per mancanza di manodopera, non hanno potuto aprire. Altre hanno dovuto lavorare a regime ridotto. Altre ancora sono state costrette a dimezzare l’attività in corso d’opera perché i neo-assunti rinunciavano dopo pochi giorni di lavoro.

Il risultato è che oggi, ancor più di ieri, alle due strozzature classiche dell’economia italiana – tasse e burocrazia – si aggiunge la strozzatura della mancanza di forza lavoro.

E’ paradossale: mentre i media sono impegnati a denunciare (giustamente) i  licenziamenti collettivi in atto in alcuni gruppi internazionali come Embraco, GKN, Whirpool, centinaia di migliaia di piccole e grandi imprese si trovano alle prese con il problema opposto: non riuscire a coprire determinati posti di lavoro (oltre 300 mila, secondo alcune stime).

E il segno più chiaro di tutto ciò è nella dinamica della disoccupazione: negli ultimi due anni il numero di persone in cerca di lavoro, anziché aumentare, è diminuito di circa 200 mila unità. Come se la risposta alla crisi occupazionale provocata dalla pandemia non fosse la ricerca di un nuovo posto di lavoro, bensì il ritiro dal mercato del lavoro.

Il risultato è che l’economia italiana, che in questi mesi sta crescendo a buon ritmo come rimbalzo rispetto al tonfo del 2020, rischia nei prossimi anni di crescere molto al di sotto del suo potenziale: un’eventualità perniciosa, tenuto conto dell’enorme debito pubblico aggiuntivo che ci stiamo accollando, e che prima o poi dovremo ripagare.

E’ dunque il momento di chiedersi: perché manca la forza lavoro necessaria a far girare l’economia a pieno ritmo?

Alcune ragioni precedono la crisi del Covid: i giovani non amano le professioni tecniche, di cui invece c’è ampia richiesta; la formazione professionale è carente e male organizzata; le facoltà scientifiche sono disertate per mancanza di basi adeguate; i salari offerti sono spesso troppo bassi.

Ma la ragione più immediata ed evidente, perché ne tocca con mano le conseguenze qualsiasi datore di lavoro, è la moltiplicazione dei sussidi, iniziata con la crisi del 2008-2012 e culminata nel varo, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, del reddito di cittadinanza. Un provvedimento mal disegnato, che oggi aggrava il problema storico della mancanza di personale disposto a lavorare.

Sul fatto che il reddito di cittadinanza verrà modificato ci sono pochi dubbi. Il problema, però, è di cambiarlo in un modo utile, evitando di limitarsi a un compromesso fra le esigenze di propaganda dei vari partiti.

Al di là dei dettagli tecnici, credo che i cambiamenti fondamentali dovrebbero essere due. Il primo è di distinguere nettamente due funzioni, e quindi due tipi di beneficiari: i poveri non occupabili (circa 2/3 dei percettori attuali: ragazzi, invalidi, pensionati, ecc.), e i poveri occupabili (circa 1/3 dei percettori attuali). Il secondo è di rendere efficace l’avvio al lavoro di questi ultimi, varando quelle “politiche attive” di cui si parla da tanti anni ma che nessun governo è mai riuscito a far decollare con successo.

Ma come?

Io un’idea ce l’avrei: e se a offrire lavoro ai percettori di reddito di cittadinanza fossero direttamente le imprese, saltando in tutto o in parte la inefficace interposizione dei navigator?

Con i mezzi oggi disponibili non dovrebbe essere troppo difficile costruire un database anonimizzato, dove ogni impresa può cercarsi il lavoratore con il profilo giusto, a partire da titolo di studio, lavori precedenti, luogo di residenza (non troppo lontano). All’operatore pubblico spetterebbe soltanto associare al codice identificativo di quel lavoratore un nome e un cognome, trasmettere all’interessato la data del colloquio di lavoro presso l’impresa, registrare l’esito del colloquio (assunzione, mancata assunzione, rifiuto del lavoratore).

Basterebbe?

No, non basterebbe, perché comunque resterebbero in piedi gli altri problemi del nostro mercato del lavoro, a partire dalla mancanza di tecnici e laureati in discipline scientifiche. Però sarebbe un passo avanti, perché almeno certi tipi di imprese (tipicamente: quelle dell’industria turistica) sarebbero messe in condizione di creare più posti di lavoro regolare.

“Sì, sono disponibile, ma solo se mi pagate in nero: non voglio perdere il reddito di cittadinanza” è una risposta che non ascolteremmo più.

 Pubblicato su Il Messaggero del 25 settembre 2021




Vaccinazione, il privilegio italiano

In questi giorni di roventi polemiche sul Green Pass mi è capitato di leggere, a difesa del Green Pass stesso, che nel Regno Unito ne potrebbero fare a meno perché lì i non vaccinati sarebbero una esigua, trascurabile, minoranza, mentre da noi sarebbero un esercito.

Capisco che lo si possa credere, ma è del tutto falso. Nel Regno Unito i non vaccinati puri (nessuna dose) sono il 28.9%, da noi sono un po’ di meno (27.2%), e non molti di più come si è inclini a credere. Quanto ai doppiamente vaccinati, siamo in perfetta parità con il Regno Unito, a un soffio dal 65%.

Ma c’è di più. Gli altri due paesi modello, Israele e Stati Uniti, lodati per tanti mesi dai media di tutto il mondo, hanno anch’essi meno vaccinati dell’Italia: 63.3% di pienamente vaccinati in Israele, e appena il 53.0% negli Stati Uniti. Né le cose vanno tanto diversamente se, dai paesi modello, ci spostiamo su paesi più ordinari: anche Francia, Germania, Svezia hanno meno vaccinati di noi. Fra i paesi europei importanti, solo la Spagna ha una percentuale di completamente vaccinati decisamente superiore alla nostra (76% contro 65%).

Non saprei dire se la tendenza ad amplificare il pericolo NoVax abbia un’origine politica, o dipenda dal sensazionalismo dei media, certo è che – se ci atteniamo ai dati – tutto si può dire dell’Italia tranne che sia indietro con le vaccinazioni. Quel che dovremmo chiederci, semmai, è come abbiamo fatto a raggiungere il buon risultato che, fin qui, abbiamo conseguito. Una risposta possibile è che ci siamo liberati di Arcuri e lo abbiamo sostituito con il generale Figliuolo. Una seconda risposta è che il Green Pass è stato un efficacissimo (ancorché umiliante) escamotage dei nostri governanti: non potendo contare sul nostro senso civico, hanno puntato sul nostro bisogno di vacanze e di normalità. C’è però una terza risposta possibile, che quasi sempre si dimentica: in Italia la clamorosa mancanza di bambini e ragazzi rende molto più agevole che in altri paesi avvicinarsi a percentuali di copertura vaccinale elevate. Se non puoi vaccinare sotto una certa età, e sotto quella età ci sono quattro gatti perché le donne italiane non fanno figli, allora sei in vantaggio rispetto a paesi che, come Israele, hanno legioni di bambini e ragazzi, in quanto i tassi di fecondità femminile sono altissimi (gli under 12 sono il 10.1% in Italia, ma salgono al 23% in Israele).

Arrivati a questo punto, ci si potrebbe chiedere: se la maggior parte degli altri paesi hanno vaccinato meno dell’Italia e, a dispetto di questa circostanza, non adottano il Green Pass, perché noi ce lo infliggiamo? non potremmo sfruttare il nostro “vantaggio vaccinale” per tenere più aperta l’economia? perché limitare così gravemente la libertà di muoversi, di lavorare e di studiare?

Io penso che questa limitazione della libertà che viene imposta a una minoranza (di non vaccinati) per proteggere la maggioranza (dei vaccinati), abbia almeno due giustificazioni, una nobile e l’altra meno.

La giustificazione nobile è che, avendo avuto fin qui più morti per abitante di qualsiasi altra società avanzata (a parte il Belgio), l’Italia ha maturato delle soglie di allarme più severe di quelle di altri paesi. Non tutti lo sanno, ma in questo momento molti dei paesi cui veniamo invitati ad allinearci hanno un numero di morti per abitante molto superiore al nostro. Fatto 100 il numero di morti al giorno dell’Italia, la Spagna ne ha 160, la Francia 178, il Regno Unito 220, Israele 412, gli Stati Uniti addirittura 589 (solo la Germania sta meglio di noi, a livello 58). E cifre analoghe si potrebbero riportare per le ospedalizzazioni, o i ricoveri in terapia intensiva. In poche parole: questi meravigliosi paesi, paladini e custodi delle libertà individuali, stanno pagando un prezzo molto più alto del nostro sul terreno della salute.

C’è anche una giustificazione meno nobile, però. I nostri governanti sanno perfettamente che i prossimi 6 mesi saranno tremendi, perché vedranno l’alleanza (inedita!) fra variante delta e stagione fredda, con conseguente drastica riduzione del tempo di vita all’aperto e moltiplicazione delle interazioni negli ambienti chiusi. Ma sanno pure di non aver fatto quasi nulla sui tre versanti fondamentali: ricambio dell’aria nelle scuole, trasporti pubblici, protocolli di cura domiciliare. E’ quindi naturale che, temendo il peggio, si cautelino imponendo più restrizioni di quelle che appaiono immediatamente logiche e giustificate (anche se, voglio dirlo, trovo un po’ vile aspettare il voto di ottobre per renderle effettive).

Temo che il problema, e la difficoltà di prendere partito pro o contro il Green Pass, stia tutto qui. Per quanto mi riguarda, capisco molte delle obiezioni che i critici del Green Pass, a partire da molti miei colleghi docenti universitari, rivolgono al governo. Ma non posso non notare che, per non sentirci ora costretti ad accettare il Green Pass, avremmo dovuto prepararci da molto tempo a fare tutte le cose che (forse) lo avrebbero reso superfluo, e che nessun governo ha voluto fare. E ancor meno posso dimenticare che, nella battaglia per fare in tempo utile tutto ciò che andava fatto, siamo stati – chiunque fosse al governo – una piccolissima minoranza. Forse, se il mondo dell’università si fosse mobilitato allora, e lo avesse fatto con la forza che deriva dallo studio, dalla cultura e dall’indipendenza di giudizio, oggi non saremmo a questo punto.

  Pubblicato su Il Messaggero del 17 settembre 2021




Studenti allo sbaraglio

Oggi le scuole riaprono in dieci regioni, e 4 milioni di allievi tornano in classe. Nei prossimi giorni riapriranno anche le scuole delle altre regioni. Pure nell’Università i corsi stanno per ripartire. Insomma, la macchina dell’istruzione si sta rimettendo in moto.

Con quali regole?

A quel che si apprende dalle linee guida governative si tratta di regole molto deboli, tendenzialmente ancora più lasche di quelle del passato. Il distanziamento fra gli studenti è solo di 1 metro, e non è obbligatorio. Nell’università nessuna norma impedisce di tenere lezioni in aule occupate al 100%, il che mediamente significa distanziamento inferiore al metro. Gli studenti universitari devono prenotarsi ed essere vaccinati per accedere alle lezioni, ma non sono previsti controlli, se non a campione (il che fa presagire una replica dei controlli fantasma negli aeroporti). Le mascherine sono perlopiù obbligatorie, ma non necessariamente ffp2 (bastano le chirurgiche, che come si sa proteggono assai poco). Per il ricambio dell’aria ci si affida all’apertura di porte finestre, strada chiaramente poco percorribile nei mesi più pericolosi (da dicembre a febbraio). Quanto ai mezzi pubblici, dopo aver ipotizzato l’obbligatorietà del Green Pass e il ritorno in grande stile della figura del “controllore”, si è rapidamente fatto marcia indietro perché “è difficile fare i controlli” (esito ovvio e prevedibile, se ci si occupa del problema ad agosto per settembre, dopo un anno e mezzo dall’inizio dell’epidemia).

Come è possibile? Da almeno un anno sappiamo che il virus si trasmette con estrema facilità negli ambienti chiusi, che 1 metro di distanza non basta, e che il ricambio sistematico dell’aria è cruciale. Nonostante ciò, salvo alcune eccezioni (ad esempio quella della Regione Marche), quasi nulla è stato fatto sui due versanti fondamentali: diminuzione del numero di studenti per classe, attraverso l’aumento del numero di aule; aerazione dei locali, mediante filtri HEPA o impianti di VMC (ventilazione meccanica controllata). Eppure sono quasi due anni che è scoppiata l’epidemia, e di tempo ne abbiamo avuto tantissimo, anche grazie al fatto che per molti mesi le scuole e le università sono rimaste chiuse. Perché non è stato fatto niente?

Una risposta possibile è che i nostri politici semplicemente non ne siano capaci. Quando si tratta di varare misure complesse, anziché agire preferiscono tergiversare e, nel frattempo, scaricare gli oneri dell’aggiustamento sul settore privato (e sugli ospedali). E così si chiede alla gente di stare in casa, o agli operatori economici di controllare il rispetto delle regole, ma ci si guarda bene dall’intervenire nei contesti di diretta competenza della Pubblica Amministrazione: uffici pubblici, scuole, università, mezzi di trasporto. Nell’ambito della sfera pubblica, solo agli ospedali viene richiesto di contribuire direttamente alla lotta al Covid, spesso senza fornire loro tutti i mezzi necessari.

Ma c’è anche un’altra risposta possibile. Forse la ragione per cui scuole e università partono con misure di sicurezza davvero molto minimali è semplicemente che i nostri governanti, confortati dai pareri rassicuranti del Comitato tecnico-scientifico, pensano che tali misure siano sufficienti. Insomma, non è che non sono capaci di organizzare interventi complessi, è che sono convinti che tali interventi non siano necessari. Il grandioso obiettivo di non tornare alla DAD (didattica a distanza) sarebbe raggiungibile semplicemente spingendo l’acceleratore sulle vaccinazioni, e attenendosi alle blande misure previste per scuole e università. Secondo questo modo di ragionare, la situazione odierna sarebbe meno preoccupante di quella di un anno fa perché la maggior parte dei cittadini è vaccinata, gli ospedali non sono troppo sotto pressione, i rischi di ospedalizzazione e di morte si sono drasticamente ridotti.

Ma è ben riposta questa convinzione?

Spero vivamente di sbagliarmi, ma penso che non lo sia. E’ vero che, rispetto all’anno scorso, abbiamo l’arma in più del vaccino, ma è altrettanto vero che la variante delta, che ha ormai preso il sopravvento in Italia, controbilancia e verosimilmente supera l’impatto positivo del vaccino. A suggerire questa amara diagnosi sono i numeri di base dell’epidemia: a dispetto del vaccino e di una campagna di vaccinazione più che soddisfacente (giusto nei giorni scorsi abbiamo superato Israele), oggi gli ospedalizzati sono 3 volte quelli di 12 mesi fa, i contagiati giornalieri sono il quadruplo, i morti quotidiani e i ricoverati in terapia intensiva sono addirittura il quintuplo.

In concreto: il rientro dalle vacanze avviene con una circolazione del virus molto più intensa di quella di un anno fa. Né possiamo illuderci che a salvarci possa intervenire, nel giro di pochi mesi, la raggiunta immunità di gregge. Con vaccini come quelli attuali (che proteggono solo in parte dalla infezione), l’immunità di gregge è semplicemente impossibile, anche riuscissimo a vaccinare il 100% della popolazione. E’ abbastanza incredibile che, per riconoscere questa realtà, ben nota agli studiosi dai primi mesi dell’anno, si sia dovuto attendere fino a pochi giorni fa, quando Gianni Rezza (Direttore generale della Prevenzione al Ministero della Salute) ha finalmente ammesso che “l’immunità di gregge non è un obiettivo realistico”, in patente contrasto con centinaia di dichiarazioni e auspici delle autorità politiche e sanitarie nei mesi scorsi.

Ed eccoci al dubbio finale: come è possibile che, sapendo che il virus circola molto di più che un anno fa, e avendo finalmente preso atto che questi vaccini non potranno regalarci l’immunità di gregge, le misure adottate per riaprire scuole e università siano ancora più blande di quelle dell’anno scorso?

Pubblicato su Il Messaggero del 13 settembre 2021




Covid e tabù. L’informazione ai tempi della guerra contro il Covid

1 – Fare informazione in tempi di guerra

Oltre a fare il prof. universitario, di Sociologia e Analisi dei dati, negli ultimi 16 anni ho fatto il mestiere di editorialista. I quotidiani con cui ho collaborato, la Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero erano (e sono tuttora) politicamente poco caratterizzati. In concreto, vuol dire che potevo scrivere (quasi) tutto quel che mi passava per la testa.

Certo, mi è capitato di sentire qualche volta la pressione a non essere troppo crudo, ma mai ho avuto la sensazione che ci fossero cose vere che non si potevano dire.  O, più esattamente: mai ho avuto la sensazione che ci fosse, nei miei campi di studio, qualche risultato di ricerca di cui – sul quotidiano – era meglio non parlare. Anche nell’epoca del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo, le cose erano filate lisce: si poteva essere pro o contro, e agli studiosi al massimo capitava di sentirsi dire che un certo risultato, una certa analisi, un certo dato potevano essere “strumentalizzati” dalla destra o dalla sinistra.

Oggi è ancora così?

Per certi versi credo di sì. Anche oggi, nessuno ti dice che cosa devi scrivere, e che cosa non puoi scrivere. Ma per altri versi sento che no, non è più così. Un clima come quello che si respira da 8-9 mesi a questa parte non mi è mai capitato di avvertirlo prima, forse perché non sono abbastanza vecchio per avere memoria di quel che può diventare il mestiere di editorialista indipendente quando scoppia una guerra.

Già, perché questo è successo: alla fine del 2020 l’Italia, come ogni altra nazione europea, ha dichiarato ufficialmente guerra al virus. E, nello stato di guerra, tutto cambia. La popolazione è chiamata a cooperare allo sforzo bellico, e chi è nella condizione di vestire la divisa (i maggiorenni) è tenuto ad arruolarsi (vaccinarsi). Chi rifiuta di farlo è considerato un disertore, chi non partecipa alla campagna di arruolamento, o lo fa esprimendo qualche riserva, viene visto come un disfattista. I media principali sono chiamati a dare il loro contributo a vincere la guerra che è stata dichiarata. Non era mai successo, dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall’ultima guerra vera scoppiata in Europa.

Ed ecco il problema. Il lavoro dello studioso, se non è accecato dall’ideologia e dalla faziosità, non è quello di sostenere con tutti i mezzi una determinata causa, foss’anche la più nobile. Il lavoro dello studioso è di dire le cose come stanno, in base alle risultanze della ricerca scientifica. Se non fa questo, e decide che cosa dire e che cosa non dire in base all’opportunità politico-militare del momento, perde completamente la sua credibilità.

Ma dire le cose come stanno è difficile nel corso di una guerra, e lo è particolarmente sui media più autorevoli (stampa e tg), che – giustamente dal loro punto di vista – si sentono impegnati in una missione suprema, la guerra al Covid, non certo a dare ai propri lettori una rappresentazione accurata della realtà. Il guaio, per lo studioso, è che fra le molte cose vere o supportate dai dati ve ne sono parecchie che non tengono alto il morale delle truppe, o addirittura hanno effetti di demoralizzazione.

Né si pensi che tutto il problema stia nei mezzi di comunicazione ufficiali e a vasta diffusione, come i quotidiani nazionali e le reti tv. In questi mesi ho letto sul web migliaia di interventi, sia di tipo scientifico sia di tipo giornalistico, sul Covid e i vaccini, e quasi sempre, fin dalle prime righe, sono stato in grado di riconoscere l’intento primario dell’autore: o la difesa della vaccinazione, o la messa in dubbio della sua utilità e sicurezza.

Aut Aut. Mai il tentativo di raccontare l’intera verità, o perlomeno quello che fino a quel momento si sa dell’andamento dell’epidemia e dei mezzi per contrastarla.

2 – Dal fact checking al fake checking

Questa compulsione a prendere partito, riducendo al minimo i dubbi e le sfumature, è tanto più interessante quando si manifesta negli interventi di fact checking, i cui estensori ambirebbero ad un ruolo di giudici obiettivi e neutrali: anche lì, dopo poche righe, capisci dove si va a parare.

La pratica del fact checking, proliferata durante il Covid, meriterebbe uno studio a sé. In innumerevoli casi si è trasformata in una sorta di killeraggio a danno delle posizioni eterodosse, anche se sostenute da studiosi autorevoli, o supportate da pubblicazioni in riviste prestigiose.

Forse il caso più clamoroso di killeraggio è stato quello nei confronti degli scienziati che sostengono la tesi, minoritaria ma non del tutto priva di argomenti a supporto, secondo cui la vaccinazione di massa – in presenza di alti livelli di circolazione del virus – possa favorire la nascita di varianti resistenti ai vaccini stessi.

Questa tesi, giusta o sbagliata che sia, è stata completamente cancellata dalla comunicazione pubblica, perché avrebbe potuto instillare il dubbio che sia stata una follia, nell’autunno-inverno del 2020, non abbattere la circolazione del virus prima di iniziare la vaccinazione di massa; e ora potrebbe alimentare il sospetto che la vaccinazione non basti, e che l’era delle restrizioni e dei lockdown non sia affatto finita.

Nonostante gli sforzi per cancellarla e squalificarla, la tesi della pericolosità della vaccinazione di massa in condizioni di alta circolazione del virus sta faticosamente riemergendo nel dibattito scientifico, anche in sedi prestigiose come la rivista “Nature”. Forse, dovremmo smettere di parlare di fact checking, e prendere atto della mutazione: in epoca di guerra, il fact checking si è trasformato in fake checking, al servizio dell’ortodossia dominante.

Ricapitolando: la dichiarazione di guerra al Covid, scattata con l’inizio della campagna di vaccinazione (27 dicembre 2020), ha reso la vita difficile al dubbio e all’esercizio del senso critico, che pure dovrebbero essere – in una situazione in cui la scienza ha pochissime certezze – le modalità normali di comunicazione. Il tutto in favore di uno stile di comunicazione parziale ed omissivo, dove la chiave di volta non è ciò che si racconta, ma ciò di cui si preferisce tacere.

3 – Tre casi di sproporzionata disattenzione

Lo stile omissivo tocca sia la comunicazione provax, volta alla promozione della campagna vaccinale, sia quella nivax, volta a sollevare dubbi sulla vaccinazione (della comunicazione platealmente novax non mi occupo, essendo facilmente riconoscibile e poco interessante).

E’ il caso di notare, tuttavia, che vi sono anche omissioni che, almeno a prima vista, non hanno una evidente finalità pro o antivax. Sembrano, piuttosto, frutto di un mix di superficialità, disattenzione, gregarismo (il desiderio di parlare di ciò di cui parlano tutti, per parafrasare il romanzo di Francesco Piccolo).

Rientrano in questa categoria tre casi di “sproporzionata disattenzione” a ipotesi scientifiche interessanti e – se vere – potenzialmente ricche di conseguenze pratiche:

  1. la trasmissione aerea del virus (attraverso aerosol, anziché attraverso le goccioline);
  2. il ruolo protettivo della vitamina D;
  3. le basi genetiche della suscettibilità individuale al virus, nonché l’esistenza (da gennaio 2021) di un test per individuare gli italiani suscettibili (circa 1 su 6).

Sul primo punto (trasmissione mediante aerosol), il silenzio è durato circa un anno. Nonostante pubblicazioni scientifiche e appelli di centinaia di scienziati di decine di paesi, per tutto il 2020 l’Oms non ha mai voluto prendere seriamente atto di questa possibilità. In Italia, grazie a una lettera aperta del prof. Giorgio Buonanno, l’allarme sulla realtà della trasmissione mediante aerosol era scattato fin dal 27 marzo 2020 (pochi giorni dopo l’inizio del lockdown), ma è stato completamente ignorato dalle autorità sanitarie, e solo tardivamente preso in qualche considerazione dai mass media.

Sul secondo punto (vitamina D), salvo isolate eccezioni, l’attenzione dei media è stata sempre bassissima, e sostanzialmente succube del Ministero della Salute che, diversamente dalla comunità scientifica, ha sempre cercato di togliere ogni legittimità all’ipotesi di un nesso fra carenza di vitamina D e suscettibilità al Covid. Ancora oggi (settembre 2021), sul sito del Ministero, l’ipotesi è sbrigativamente derubricata a fake news.

Sul terzo punto (basi genetiche), l’esistenza di una copiosa letteratura scientifica, e l’indubbia importanza dell’esistenza di un test (dell’Università di Verona) per individuare i soggetti più a rischio, non sono bastati ad attirare l’interesse dei media e delle autorità sanitarie.

Naturalmente, è comprensibile che Oms, governi, e autorità varie abbiano provato a ignorare e screditare ipotesi che potevano risultare (o quanto meno apparire) in contrasto con le politiche adottate. Meno chiaro perché i media le abbiano quasi completamente ignorate.

4 – Cherry picking, il vizio comune di provax e nivax

Ma torniamo ai tabù dei media provax e nivax.

L’informazione provax è incapace di accettare qualsiasi notizia scientifica che vada contro il totem della vaccinazione, così smorzando il consenso del pubblico, o disturbando i piani del governo. Nell’estate 2021, ad esempio, in piena stagione turistica, è stata messa la sordina alle ricerche che dimostravano che anche i vaccinati possono trasmettere il virus, e che non è affatto vero che fra vaccinati non ci si infetta: l’imperativo categorico era rendere desiderabile la vaccinazione, e favorire il decollo del Green Pass. È presumibile che nascondere i limiti della vaccinazione possa aver spinto la vaccinazione stessa, ma è certo che magnificare acriticamente le virtù protettive dei vaccini ha contributo a ridurre la vigilanza e il rispetto delle regole di prudenza.

Non solo. Fra giugno e agosto la medesima sordina è stata imposta ad altre due notizie potenzialmente in grado di disturbare il manovratore: la notizia che Astra Zeneca, almeno nei primi mesi dalla seconda dose, è molto meno efficace di Pfizer, e la notizia che, dopo 6 mesi, l’efficacia di entrambi i vaccini è gravemente compromessa.

La prima notizia avrebbe reso difficile continuare a vaccinare con AstraZeneca, la seconda avrebbe impedito al governo di cavarsela portando da 9 a 12 mesi la validità del Green Pass, e lo avrebbe costretto ad avviare subito una campagna di rivaccinazione (come si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e molti altri paesi, europei e non).

È comprensibile che il Comitato tecnico-scientifico, che di fatto si muove come un organo politico, abbia dato il suo ok, ma è meno comprensibile che la stampa libera sia rimasta piuttosto quieta, come se lasciare scarsamente coperte milioni di persone (i vaccinati nei primi mesi 2021) non avesse costi umani seri, sotto forma di maggiori  ospedalizzazioni e maggiori decessi.

L’informazione nivax, d’altro canto, pare strutturalmente incapace di leggere i dati. Ogni sorta di espediente logico viene usato per mettere in dubbio l’efficacia del vaccino. Ogni notizia che, a prima vista, suggerisce che i vaccinati si ammalano più dei non vaccinati, viene sbandierata acriticamente.

È interessante rilevare i non sequitur, i trucchi, le ingenuità della anti-informazione nivax. Per esempio il salto logico: anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, dunque è inutile pretendere il Green Pass (come se uno dicesse: qualche automobilista muore nonostante abbia la cintura di sicurezza, quindi non imponiamo le cinture di sicurezza).

Ancora più interessanti le ingenuità alla Cacciari, miseramente franato sul “paradosso di Simpson”, una trappola statistica in cui si può cadere quando la relazione fra due variabili (vaccinazione e decesso) viene analizzata ignorando una terza variabile (l’età) che può capovolgere il segno della relazione. E infatti gli stessi dati invocati da Cacciari per insinuare che il vaccino non funziona, correttamente analizzati (dagli studiosi, ripresi dalla stampa provax), provano semmai l’esatto contrario.

Per non parlare dell’uso partigiano dell’argomento retorico “non ci sono prove incontrovertibili che…”, un grimaldello con il quale diventa possibile giustificare o squalificare ogni sorta di affermazione, dalla pericolosità potenziale dei vaccini (non ci sono prove di effetti negativi sulla fertilità), all’efficacia preventiva della vitamina D (non ci sono prove che funzioni), ai rischi della trasmissione del virus mediante aerosol (non ci sono prove che avvenga).

Eppure, ci si dovrebbe rendere conto che l’argomento della mancanza di prove incontrovertibili è puramente retorico: l’assenza di prove può essere usata, intercambiabilmente, a sostegno di una tesi (non ci sono prove che la terapia X funzioni) così come della tesi contraria (non ci sono prove che la terapia X non funzioni).

È il caso di notare che l’uso strumentale, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’argomento “non ci sono prove incontrovertibili che…” ha impedito, per circa un anno, di riconoscere la possibilità e la pericolosità della trasmissione aerea (mediante aerosol), a dispetto degli innumerevoli studi, appelli e lettere aperte di centinaia di scienziati internazionali. Una cecità che, riducendo la vigilanza negli ambienti indoor, ha sicuramente aumentato, e non di poco, il numero dei morti per Covid.

Alle fine, quel che accomuna i due campi è l’omissione di informazioni rilevanti, e la selezione arbitraria di pezzi di informazione funzionali alla tesi che si vuole difendere, il cosiddetto cherry picking.

5 – Scelta vaccinale e razionalità

Si potrebbe pensare, arrivati a questo punto, che il modo di disinformare di provax e nivax si riduca alla scelta dei tasselli da mettere in campo o, se preferite, alla gestione dei tabù.

In realtà non è tutto, c’è anche la matematica, o meglio la scarsa dimestichezza con la matematica, la logica e la statistica necessarie per destreggiarsi nei meandri dell’epidemia (un esempio lo abbiamo già visto a proposto del paradosso di Simpson). Prendiamo la questione della vaccinazione dei più giovani, ragazzi e bambini. L’atteggiamento prevalente nell’informazione main stream è di presentare l’esitazione vaccinale (ossia la posizione di chi teme la vaccinazione e non ha ancora deciso se vaccinarsi, o se vaccinare i propri figli), come un atteggiamento irrazionale, frutto di ignoranza e disinformazione.

Ma la matematica della scelta razionale, sia nella sua versione utilitarista sia in quella della portfolio selection (che incorpora l’avversione al rischio nelle funzioni di utilità soggettiva), racconta tutta un’altra storia. Per giudicare non razionale la scelta di non vaccinarsi dovrebbero essere noti, come minimo, il rischio di ammalarsi gravemente e i rischi connessi a effetti avversi di breve, medio e lungo periodo. Poiché il primo (rischio di malattia grave) è bassissimo per i più giovani, e i secondi (rischi futuri) sono semplicemente sconosciuti, non c’è nulla di intrinsecamente irrazionale nell’evitare un rischio di entità sconosciuta per proteggersi da un rischio di entità nota e trascurabile, o comunque bassissima (per un under 18 il rischio di decesso per Covid è almeno 10 volte più basso di quello di morire per un incidente stradale).  Tanto è vero che, nelle scienze sociali, la scelta di non vaccinarsi viene tipicamente analizzata con gli strumenti della teoria dei giochi, ossia dentro il paradigma della rational choice.

Nel linguaggio della teoria della scelta razionale: il soggetto è costretto ad operare con probabilità soggettive, in una situazione che – tecnicamente – si definisce di incertezza, perché non solo è impossibile prevedere con esattezza le conseguenze dell’azione, ma non è neppure possibile assegnare delle probabilità obiettive ai vari esiti possibili. Se il soggetto percepisce i rischi futuri (sconosciuti) come superiori ai benefici (stimabili, e fortemente dipendenti dall’età) non si dà un modo scientifico di convincerlo a rifare i calcoli in altro modo. Si può solo tentare di persuaderlo che sopravvaluta i rischi del vaccino, e attendere che la scienza – forte di anni di sperimentazione sul campo – abbia gli elementi per risultare convincente.

Certo si può affermare che chi non si vaccina aumenta il rischio altrui, ma altrettanto bene si può obiettare che un genitore che autorizza la vaccinazione del figlio o della figlia minorenne ha una doppia responsabilità, verso la società ma anche verso la prole, di cui mai vorrebbe mettere a repentaglio l’integrità fisica futura. Nella mia esperienza, questa obiezione viene soprattutto dalle madri, indipendentemente dal livello di istruzione, e non è agevolmente controvertibile. La decisione di vaccinare o non vaccinare un bambino, che politici e mass media tendono a presentare come una questione di senso civico, rientra assai più plausibilmente nel campo delle “tragic choices”, per usare la classica formulazione di Guido Calabresi.

Insomma: la scelta di vaccinarsi è razionale, ma quella di non farlo può esserlo altrettanto, esattamente come può essere razionale tanto scommettere sul verificarsi di un evento quanto scommettere sul fatto che non si verifichi (la differenza la fanno le percezioni soggettive dei decisori, nonché le rispettive propensioni al rischio).

Personalmente propendo per la vaccinazione, ma trovo sorprendenti la superficialità, l’arroganza e il paternalismo con cui – in una parte non piccola della comunicazione pubblica – vengono squalificati coloro che esprimono dubbi.

6 – Due metriche per l’efficacia vaccinale

La mancanza di dimestichezza con la matematica gioca anche altri brutti tiri. Ad esempio, porta a sottovalutare le differenze di efficacia fra i vaccini. Mi spiego con un esempio. Se ci dicono che il vaccino A fornisce una protezione del 95%, e il vaccino B del 90%, tendenzialmente ci facciamo l’idea che fra i due vaccini non vi siano grandi differenze. Invece le differenze sono enormi: il vaccino A riduce il rischio di un fattore 20, il vaccino B di un fattore 10.

Il fattore di riduzione (f), infatti, è legato all’efficacia del vaccino (ε) dalla formula:

f = (1 – ε)-1

Se la si analizza attentamente, ci si rende conto che variazioni di efficacia apparentemente modeste, come quelle legate alla variante (delta piuttosto che alpha), al periodo di vaccinazione (primo o secondo trimestre del 2021), o al vaccino usato (Pfizer o AstraZenca), possono essere associate a enormi differenze nella protezione dal rischio, anche da una amplissima protezione 33 (efficacia del 97%) a una modesta protezione 3 (efficacia del 67%).

Che i mass media, quando parlano di efficacia, usino sempre la metrica di ε e non quella di f induce il pubblico a non percepire le grandissime differenze che possono sussistere fra situazioni e fra vaccini.

7 – L’aritmetica dell’immunità di gregge

Il caso più clamoroso di incomprensione dell’aritmetica dell’epidemia è però quello della cosiddetta immunità di gregge. Uno degli argomenti più ripetuti a favore della vaccinazione di massa è che, grazie ad essa, raggiungeremo l’immunità di gregge. L’argomento è spesso accompagnato da percentuali-obiettivo, tipo “dobbiamo vaccinare almeno il 70% degli italiani”, e dalla tesi secondo cui – proteggendo una certa percentuale della popolazione – anche i non vaccinati risulterebbero protetti (una curiosa applicazione del concetto di free rider).

Ma questi argomenti non sono semplicemente fuorvianti, sono del tutto errati. Intanto non è vero che, raggiunta la percentuale che garantisce l’immunità di gregge, i vaccinati proteggono anche i non vaccinati. Il significato della soglia di copertura vaccinale necessaria (70% nell’esempio) è solo che, se la si raggiunge (e se si adottano alcuni assunti semplificatori sulle interazioni sociali), l’epidemia si ferma, e se la si supera – prima o poi – l’epidemia si spegne. In altre parole: i non vaccinati continuano ad ammalarsi e morire, ma il numero di nuovi casi diventa sempre più piccolo, fino ad azzerarsi in un futuro più o meno lontano.

La formula standard per calcolare la copertura vaccinale (Vc) che garantisce l’immunità di gregge è:

Vc = 1-1/R0

dove R0 è il numero di riproduzione di base, ossia il numero medio di persone contagiate da un soggetto che si ammala. Il valore di R0 era circa 3 all’inizio dell’epidemia, è diventato circa 5 con la variante alpha, e circa 8 con la variante delta. In concreto, vuol dire che con il virus originario ci sarebbe bastato vaccinare 2/3 della popolazione, con la variante alpha (sopraggiunta nell’inverno 2020-2021) avremmo dovuto vaccinare l’80% della popolazione, con la variante delta (divenuta prevalente nella primavera del 2021) dovremmo vaccinare l’87.5% della popolazione. L’obiettivo è chiaramente irraggiungibile, a meno di imporre l’obbligo vaccinale e abbassare ancora un po’ l’età minima dei vaccinabili.

Ma supponiamo di farlo e che, con le buone o con le cattive, si riesca a vaccinare il 95% della popolazione. Basterebbe a spegnere l’epidemia?

La risposta è no, perché la formula dell’immunità di gregge vale per i vaccini sterilizzanti, che immunizzano completamente chi si vaccina. Il che vuol dire: chi si vaccina non può infettarsi, né trasmettere il virus ad altri. Se il vaccino è leaky, cioè non sterilizzante, vale una formula modificata:

Vc = (1-1/R0)/E

dove il termine E rappresenta quel che alcuni studiosi chiamano “efficienza vaccinale”, ossia la capacità media di impedire reinfezioni e trasmissione ad altri.

L’efficienza di un vaccino sterilizzante è per definizione 1, ossia è pari al 100%, e genera la prima formula, in cui E non compare. Quella di un vaccino leaky è difficile da calcolare, se non altro perché dipende dal mix di varianti presente in un dato momento in un certo luogo, ma certamente è ampiamente inferiore a 1.

Supponendo, ottimisticamente, che sia 0.80, il valore di Vc passa da 0.875 (per E=1) a 1.094, il che significa: non basta vaccinare l’87.5% della popolazione, ma occorrerebbe vaccinare il 109.4%.

Un risultato chiaramente assurdo, che però ha una interpretazione concreta molto chiara e tranchant: con un vaccino leaky, a meno che la sua efficienza sia pari o superiore all’87.5%, non basta neppure vaccinare l’intera popolazione.

Tutto questo è perfettamente noto agli specialisti e, dopo un articolo apparso su “Nature” nel 2021, è ormai dato per scontato nella letteratura scientifica. Nella comunicazione pubblica invece no, si continua a alimentare l’illusione che, se ci vaccineremo tutti, potremo usufruire dell’immunità di gregge.

Il tutto in un’epoca in cui non si fa che parlare di precision journalism, computer assisted reporting, data journalism, fact checking, eccetera eccetera. Forse c’è qualcosa che non va.


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