La sinistra che non segue Letta

Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica?

Chissà.

Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista?

Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge.

No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono?

Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori.

Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi.

Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini).

E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge.

Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”.

Che dire?

Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

 Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021




Troisi, quanto ci manchi!

Ho passato buona parte della mia vita professionale all’università, insegnando materie come sociologia e analisi dei dati. E negli ultimi decenni, in innumerevoli occasioni, mi è capitato di osservare, non senza rammarico, e qualche volta con rabbia, certe differenze fra studenti e studentesse. Differenze medie, naturalmente, perché le eccezioni per fortuna non mancano.

In breve: le ragazze si sottovalutano, i ragazzi si sopravvalutano; le ragazze sono poco sicure di sé, i ragazzi spesso lo sono senza averne motivo; le ragazze sono più ligie alle regole, i ragazzi sono più propensi a trasgredirle; le ragazze sono decisamente più affidabili, i ragazzi hanno meno paura di allontanarsi dagli schemi; le ragazze studiano di più e ottengono voti più alti, i ragazzi studiano di meno, ottengono voti più bassi, e più raramente riescono a laurearsi. Se non si è accecati dall’ideologia, queste e analoghe differenze si vedono a occhio nudo (e in diversi casi sono comprovate dalla ricerca empirica).

Avendole osservate per anni, non mi sono minimamente stupito delle affermazioni del prof. Alessandro Barbero, collega del mio medesimo ateneo, che in una intervista ha parlato di “differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi”. Barbero, più esattamente, ha timidamente avanzato l’ipotesi secondo cui alle donne mancherebbero quella “aggressività, spavalderia, e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi”. Ipotesi più che plausibile, e testabile empiricamente (in parte è già stato fatto).

In un mondo normale nessuno si sarebbe scomposto, e l’intervista del prof. Barbero sarebbe stata rapidamente dimenticata, avendo egli espresso un concetto di senso comune.

Da ieri ho la certezza che non viviamo in un mondo normale. Le affermazioni del prof. Barbero, anziché essere considerate sensate ma un po’ banali, sono divenute il bersaglio dei social, di una parte della grande stampa, e persino della Commissione di Vigilanza Rai, che con il suo segretario ha sollecitato la presidentessa della Rai a togliere ogni collaborazione presente e futura al prof. Barbero.

Stendo un velo pietoso sugli esercizi di retorica femminista che hanno imperversato nei giorni scorsi e mi concentro su un punto: che cosa ha scatenato cotanta ira?

Come sociologo, mi sento di avanzare due spiegazioni. La prima è che negli ultimi 10-15 anni la comunicazione pubblica ha abbandonato il principio di Massimo Troisi: “io sono responsabile di quello che dico, non di quel che capisci tu”. La gente reagisce agli stimoli in modo associativo, come il cane di Pavlov di fronte al cibo, o il toro di fronte al drappo rosso. Non si chiede che cosa ha veramente detto un autore, e meno che mai se quel che ha detto è vero. Prende un pezzo del discorso, una parola, una frase, la stacca dal contesto, e su quel brandello proietta i suoi fantasmi, senza alcun rispetto per l’autore che ha espresso un dato pensiero. I pensieri di Barbero non interessano nessuno, se non come micce utili per scatenare la catena dell’indignazione collettiva, che viaggia allegramente su internet, sulla carta stampata e in tv.

Ma c’è anche un secondo motivo per cui le innocenti, e in alcuni passaggi assai femministe, affermazioni di Barbero hanno scatenato l’iradiddio. Oscuramente e confusamente, in esse gli indignati e le indignate hanno visto il rischio di una incrinatura, di una sottile crepa, nel racconto ufficiale e politicamente corretto sulla condizione della donna.

Se noti che per fare carriera è utile un alto grado di fiducia in sé stessi, e al tempo stesso che molte donne ne difettano, può sorgere il sospetto che le carriere delle donne non siano minacciate solo da arbitri e discriminazioni perpetrate dai maschi, ma anche da caratteristiche psicologiche delle donne stesse. In breve: il racconto ufficiale, per lo più costruito nel registro vittimistico, perde una parte della sua forza, perché indica anche un lavoro che le donne devono fare su sé stesse, e non solo un lavoro che devono fare contro i maschi.

Così, se ti azzardi a dire che fra maschi e femmine ci sono “differenze strutturali” (qualsiasi cosa questa oscura espressione significhi), indignati ed indignate vedranno in questa affermazione una minaccia a un altro caposaldo del racconto vittimistico, quello per cui tutte o la maggior parte delle differenze fra maschi e femmine sarebbero socialmente costruite, frutto di stereotipi imposti da una millenaria cultura patriarcale, e dunque da sradicare, con le buone o con le cattive.

E’ questo, di tutta la vicenda, il lato più inquietante, nel caso Barbero come in tanti casi simili: i depositari del Bene si sentono in diritto, in nome della loro concezione del bene stesso, di punire, emarginare, licenziare qualcuno non solo per quel che dice, ma per quel che loro hanno capito di quel che ha detto.

Caro Troisi, quanto ci manchi!

 Pubblicato su Il Messaggero del 23 ottobre 2021




Il vuoto antifascista

Estromessi dalle decisioni che contano, ora i partiti (e le tv) ci faranno assistere a una lunga sceneggiata sullo scioglimento di Forza Nuova. Qualcuno dirà che in Italia c’è un pericoloso ritorno (anzi “rigurgito”) di impulsi fascisti, e che la Repubblica è in pericolo. Dunque, visto che la Magistratura non ha mai ritenuto di intervenire, si muova il Governo, e il Parlamento approvi la sacrosanta messa al bando di questo sciagurato partito. Il tutto sarà accompagnato, fin da stamattina, da chiassose adunate antifasciste, in difesa della Cgil, della Repubblica, della democrazia. Immancabilmente, assisteremo anche, sulla carta stampata, a una sfilata di riflessioni di pensatori, studiosi, intellettuali, che – con fare pensoso – si diranno “molto preoccupati” del pericolo fascista.

A me tutto ciò ricorda, irresistibilmente, la figura di Hiroo Onoda e dei suoi commilitoni nipponici, inviati nelle Filippine nel 1944 per ostacolare l’avanzata degli americani. Istruiti a non arrendersi, a costo della propria vita, si rifugiarono nella giungla e non vollero mai credere che la seconda guerra mondiale fosse finita. L’ultimo dei tre si arrese (all’evidenza, non al nemico), solo nel 1974, ovvero quando la guerra era finita da 29 anni.

I nostri guerriglieri antifascisti, che peraltro la loro guerra – a differenza dei giapponesi – l’hanno vinta (sia pure per interposta persona, ossia grazie ai partigiani loro padri e nonni) sono ancora più lenti: a loro di anni non ne sono bastati 76 (dal 1945 al 2021) per accorgersi che il fascismo è stato sconfitto, seppellito dalla storia, e oggi non ha nessuna possibilità di tornare né nella forma classica, né in forme più moderne.

Ma allora perché, quando li si avverte che la guerra è finita, non ci vogliono credere?

Potrei rispondere, sbrigativamente: perché non hanno idee, ed è più comodo accanirsi contro un bersaglio fantomatico (e indifendibile) come il fascismo, che sostenere un confronto ad armi pari. Lo ha segnalato lucidamente il filosofo Alain Finkielkraut qualche anno fa, quando notava che le ideologie anti-qualcosa (come anti-razzismo e anti-fascismo) truccano il gioco politico: se ti autodefinisci anti-razzista, implicitamente dai del razzista al tuo avversario politico. La stessa cosa accade con l’anti-fascismo: autodefinirsi antifascisti equivale a dare del fascista a chi non la pensa come te.

C’è però anche un altro meccanismo che presiede all’ammucchiata antifascista, e intorbida non solo la competizione politica ma la stessa vita sociale. Questo meccanismo, codificato da Umberto Eco in una celebre conferenza del 1995 (Il fascismo eterno), è quello di ridefinire il concetto di fascismo in modo così lato da renderne eterna (e aggiungo io, ubiqua) la presenza sulla scena del mondo. Diventano così segni e manifestazione del fascismo anche tratti come il tradizionalismo, la critica della modernità (ma Marinetti non esaltava la macchina e la velocità?), la paura del diverso, le frustrazioni delle classi medie, l’esaltazione della volontà popolare, il patriottismo, e persino l’uso di una lingua elementare e semplificante.

Ed è interessante che a questo meccanismo di allargamento (e annacquamento) del concetto di fascismo, molto diffuso fra gli intellettuali, si sia accompagnato – specialmente dopo il ‘68 – un analogo meccanismo nell’uso del linguaggio comune, per cui l’epiteto ‘fascista’ è appioppato a qualsiasi discorso, atteggiamento o comportamento considerato sbagliato, inaccettabile, o semplicemente molto negativo.

Ecco perché, nell’anno di grazia 2021, l’antifascismo è diventato una categoria vuota, o tutt’al più pericolosa.

Vuota perché la guerra è finita, il fascismo è stato sconfitto, e non c’è nessuna possibilità che risorga, quali che siano le decisioni che verranno prese nei confronti dei numerosi gruppuscoli di destra e di sinistra che, con la complice indulgenza dello Stato democratico, da anni ricorrono sistematicamente alla violenza.

Pericolosa perché, quando qualsiasi manifestazione del pensiero che si allontani dall’ortodossia progressista viene bollata come fascismo, di fatto si esercita una indebita prepotenza verso chi la pensa diversamente. Con tanti saluti al pluralismo e alla libertà, di cui ci si proclama paladini.

 Pubblicato su Il Messaggero del 16 ottobre 2021




Epidemia, il paradosso novax

La sensazione che, sul fronte dell’epidemia, le cose stiano andando piuttosto bene si sta facendo sempre più strada un po’ a tutti i livelli: i media rassicurano, il Comitato tecnico-scientifico autorizza un allentamento delle restrizioni, i politici fanno a gara per intestarsi il merito del ritorno alla normalità, la gente spera.

È fondato questo clima di cauto ottimismo?

Per molti versi sì. A certificarlo nel modo più chiaro sono i dati della mortalità per abitante, che in Italia è minore che in Spagna, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Israele. In Europa, fra i grandi paesi, solo la Germania è riuscita ad abbattere la mortalità quanto l’Italia, e solo la Polonia ha fatto meglio di noi. E fra i paesi europei di medie dimensioni, colpiscono i drammi della Bulgaria e della Romania, in cui la mortalità per abitante è quasi 20 volte quella dell’Italia (è come se noi, oggi, avessimo 1000 morti al giorno, anziché 50).

Perché in Italia, questa volta, le cose vanno meglio che nella maggior parte degli altri paesi?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente due.

La prima – la chiamerò “effetto Figliuolo” – è che l’Italia, anche grazie allo scarso peso della popolazione under 12, è riuscita a vaccinare una quota molto elevata della popolazione. Come sarebbero andate le cose senza la vaccinazione di massa, lo rivelano indirettamente i due paesi più disastrati d’Europa, ossia Bulgaria e Romania, che hanno vaccinato pochissimo (20-30%) e sono alle prese con una mortalità spaventosa.

La seconda ragione – la chiamerò sarcasticamente “effetto Arcuri” – è che l’Italia ha vaccinato tardi, e quindi non fa ancora i conti con il problema che affligge i paesi virtuosi come Israele, Stati Uniti, Regno Unito, che proprio per aver vaccinato massicciamente fin da dicembre sono ora alle prese con la riduzione dell’efficacia dei vaccini, e sono costretti a ricorrere affannosamente alla terza dose.

Fin qui tutto bene. Purtroppo non è tutto, però. Ci sono anche ombre, che sarebbe rischioso nascondere o ignorare.

Molti credono che, grazie al vaccino, ora non abbiamo più 800 morti al giorno, ma ne abbiamo poche decine; oggi non abbiamo 4000 persone in terapia intensiva ma “solo” 400. Questo ragionamento, però, è farlocco. Il fatto che sia ripetuto centinaia di volte al giorno in quasi tutti i giornali e in quasi tutte le tv non cambia la sua erroneità. I confronti nel tempo si devono fare a parità di stagione, perché le condizioni climatiche e le connesse abitudini di vita (al chiuso o all’aperto) hanno un enorme impatto sull’epidemia. Per dire se oggi stiamo meglio o peggio di ieri dobbiamo confrontare gli stessi periodi dell’anno.

Ebbene, facciamolo. Come stanno andando le cose, in questo scorcio di inizio d’autunno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso? La risposta è, purtroppo, che le cose vanno un pochino peggio, perché – rispetto a 12 mesi fa – abbiamo circa il doppio dei morti e dei contagiati. E questo nonostante il vaccino, nonostante il Green Pass.

Come è possibile?

Semplice: la variante delta, che ha un tasso di riproduzione (R0) molto più alto di quello della variante prevalente all’esordio dell’epidemia, ha un impatto sulla diffusione del virus che controbilancia l’impatto del vaccino sulla letalità. Un anno fa non avevamo il vaccino, ma avevamo una variante relativamente mite (simile a quella di Wuhan), oggi abbiamo il vaccino ma abbiamo la variante delta. Queste due forze tendono ad elidersi, facendo sì che la situazione attuale non sia radicalmente migliore di quella di un anno fa. E l’approssimarsi della stagione fredda, con temperature più basse e ritorno alla vita al chiuso, annuncia un ulteriore aumento dei rischi di contagio.

Siamo nei guai, dunque?

Non è detto, perché rispetto a un anno fa c’è una differenza importante: per ora il valore di Rt resta al di sotto di 1 (il valore critico, al di sopra del quale l’epidemia riparte), mentre 12 mesi fa era circa 1.5, un valore catastrofico che per circa 4 mesi (da metà luglio a metà novembre 2020) non è mai rientrato al di sotto del livello di guardia. E’ verosimile che questa differenza abbia a che fare con il Green Pass, che costringe milioni di non vaccinati a un continuo, asfissiante (ma utile) automonitoraggio mediante i tamponi.

Da questo punto di vista, è preoccupante la tempistica della rivolta contro il Green Pass in atto in questi giorni, in particolare a Roma e Milano. Quella rivolta è certamente stata aizzata e strumentalizzata da forze eversive, ma trova alimento in una preoccupazione molto concreta dei lavoratori che non intendono vaccinarsi: dal 15 ottobre, se non mi vaccino perdo lo stipendio, o sono costretto a tamponarmi (a spese mie) per 2-3 volte la settimana. Il problema è che non stiamo parlando di una piccola minoranza di irriducibili ma di qualche milione di persone, la cui assenza dal lavoro può avere effetti economici devastanti, specie nelle piccole imprese. E questo proprio nel momento in cui, per evitare che l’autunno riaccenda l’epidemia, avremmo bisogno di un rigoroso rispetto delle misure di contenimento del contagio.

Che farà il governo?

Non avendo fatto quel che, da mesi, avrebbe dovuto fare, ossia (almeno) mettere in sicurezza gli ambienti chiusi mediante dispositivi di ricambio dell’aria, temo che finirà per navigare a vista. La prima mossa è stata disattendere le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico sulle capienze massime di stadi, cinema, teatri, discoteche eccetera, con l’obiettivo di fornire un ulteriore stimolo all’economia. La seconda potrebbe essere il varo di qualche concessione a chi non vuole vaccinarsi, tipo allungare da 48 a 72 ore la validità dei tamponi, o renderli gratuiti, o introdurre deroghe ai protocolli aziendali, che già ora stanno creando seri inconvenienti burocratici alle imprese, con tanti saluti alle promesse di semplificazione e di alleggerimento del carico degli adempimenti.

E la terza mossa?

Dipenderà dall’andamento dell’epidemia. Se l’epidemia non dovesse rialzare la testa, o lo facesse senza intasare gli ospedali, lo scenario più probabile è quello di una conferma della linea aperturista attuale. Se invece il numero di morti dovesse tornare a livelli preoccupanti, dovrà affrontare il dilemma: chiudere di nuovo, o usare l’emergenza sanitaria per imporre l’obbligo vaccinale.

E’ il paradosso delle manifestazioni di questi giorni: più, in nome della libertà, si rafforza l’opposizione ai vaccini e al Green Pass, più è probabile che, con il varo dell’obbligo, la nostra libertà si restringa ancora di più.

 Pubblicato su Il Messaggero dell’11 ottobre 2021




Il vaccino non basta, la qualità dell’aria è cruciale

A tre settimane dalla ripartenza delle scuole, che cosa stia succedendo nelle aule scolastiche nessuno può saperlo con certezza. E il motivo è tanto semplice quanto triste: il governo ha deciso di non attivare un monitoraggio sistematico, capace di segnalare tempestivamente le criticità.

Perché, nonostante da più parti lo si sia invocato, nessun monitoraggio è stato predisposto?

Poiché non riesco a credere che, alla base, ci possa essere la pura incapacità di predisporlo (per un breve periodo, l’anno scorso, ci era riuscita persino la ministra Azzolina), sono portato a pensare che esistano dei motivi sostanziali.

Il primo che viene in mente è che le nostre autorità siano convinte che la vaccinazione sia sufficiente a tenere sotto controllo l’epidemia. Così si spiega anche il nulla di fatto, nelle scuole come altrove, sul controllo della qualità dell’aria.

Ma è fondato questo approccio?

Temo di no, e provo a spiegare perché.

Controllare un’epidemia non può significare semplicemente tenere basso il numero dei morti, obiettivo da cui peraltro siamo ancora lontani (al ritmo attuale il conto è di 20 mila morti l’anno), ma significa anche limitare il rischio di infezione che, anche quando non conduce alla morte, può comportare malattia e danni alla salute più o meno duraturi (il cosiddetto long-Covid). Ebbene, ormai esiste un’ampia evidenza empirica sia del fatto che i vaccini proteggono poco dal rischio di infezione, sia del fatto che anche i vaccinati possono trasmettere il virus. Per non parlare di un altro dato ormai assodato: l’efficacia del vaccino declina rapidamente dopo 4-5 mesi dal completamento della vaccinazione.

In concreto, questo vuol dire che, con la fine dell’estate e il ritorno della vita al chiuso, la velocità di circolazione del virus tenderà ad aumentare (di un fattore 4, secondo le mie stime), e diventerà quindi cruciale limitarne la diffusione negli ambienti a più alto rischio.

Ma quali sono?

Non è semplicissimo stabilirlo con esattezza, ma ormai vi sono pochi dubbi sul fatto che, dopo l’ambiente domestico, il luogo più rischioso sono le aule scolastiche. A renderle pericolose concorrono in modo cruciale la densità (troppi allievi e distanziamento insufficiente), la durata dell’esposizione (più di 4 ore), e soprattutto la mancanza quasi universale di dispositivi di controllo della qualità dell’aria (solo nella regione Marche è stato avviato un esperimento di ricambio sistematico dell’aria con la ventilazione meccanica controllata). A questi fattori di rischio strutturali si aggiunge lo scarso numero di alunni vaccinati: il vaccino esiste solo per chi ha almeno 12 anni, e fra i 12-19enni la percentuale di vaccinati è ancora troppo bassa.

Ecco perché la latitanza del governo e di quasi tutte le Regioni è inquietante. E’ da un anno e mezzo che ingegneri e scienziati internazionali sollevano il problema della trasmissione del virus mediante aerosol, e della conseguente necessità di garantire il monitoraggio della qualità dell’aria e la ventilazione negli ambienti chiusi (vedi articoli e interviste del prof. Giorgio Buonanno). Secondo uno studio di imminente pubblicazione del fisico Mario Menichella, la rinuncia a installare dispositivi di VMC (ventilazione meccanica controllata) è sufficiente, da sola, a moltiplicare di circa un fattore 10 la circolazione del virus nelle aule scolastiche.

E’ difficile sottovalutare l’importanza di questi risultati. Senza un controllo rigoroso della qualità dell’aria le scuole sono destinate a trasformarsi in focolai dell’epidemia, come già sta succedendo in queste settimane. E il numero di classi costrette alla Dad (didattica a distanza) non può che crescere, come già si intuisce dalle frammentarie notizie di stampa finora apparse.

Che fare, arrivati a questo punto?

Intanto, direi di smetterla di proclamare “mai più Dad”, o “la nostra priorità è il ritorno della didattica in presenza”. Eh no, questo cari politici non potete dirlo perché, se la vostra priorità fosse stata questa, avreste affrontato per tempo i problemi delle classi troppo numerose, del ricambio dell’aria nelle aule, della saturazione dei mezzi pubblici, e mai avreste osato ipotizzare misure come l’abbandono delle mascherine “se tutti sono vaccinati”, quasi che i vaccinati fossero perfettamente immunizzati e incapaci di tramettere il virus.

Però un paio di cose concrete e fattibili ci sarebbero.

La prima ha un costo irrisorio (50-100 euro per classe), ed è di usare in ogni aula un dispositivo di controllo del livello dell’anidride carbonica, in modo da capire quando è assolutamente indispensabile aprire le finestre. Si può fare in 1 settimana.

La seconda costa molto di più (4-5 mila euro per classe), ed è di varare un grande piano di installazione della VMC (ventilazione meccanica controllata) in tutte le aule di tutte le scuole. Si può fare in qualche mese, pianificando i relativi lavori per le vacanze di Natale. Il costo totale è di circa 1.5 miliardi.

Su questa linea si stanno già muovendo spontaneamente alcune scuole, e almeno una Regione. Non si vede perché le loro esperienze debbano restare isolate. Sempre che non si voglia confessare, una volta per tutte, che il ritorno alla scuola in presenza non è affatto una priorità.

 Pubblicato su Il Messaggero del 2 ottobre 2021