Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.




La battaglia per il salario minimo legale

Sembra sia stato soprattutto Carlo Calenda, nei giorni scorsi, a infervorarsi per l’idea di proporre una legge sul salario minimo legale che abbia il sostegno di tutti i partiti di opposizione. E si capisce bene perché: quella del salario minimo legale è, finora, l’unica proposta che potrebbe coalizzare non solo Pd e Cinque Stelle, ma anche i partiti del Terzo Polo (Azione e Italia viva).

È una buona idea?

Per certi versi è un’idea sacrosanta. Secondo una mia stima di pochi anni fa, in Italia esiste un’infrastruttura para-schiavistica di circa 3 milioni e mezzo di persone che lavorano in condizioni di precarietà, insicurezza e bassi salari non degne di un paese civile (il caso limite sono gli immigrati addetti alla raccolta di frutta e ortaggi). Altre stime suggeriscono che, a seconda del livello a cui verrebbe fissato il minimo legale, i beneficiari di aumenti salariali potrebbero oscillare fra 1 e 3 milioni di lavoratori.

C’è un problema, tuttavia. In Italia i salari effettivi variano enormemente in funzione del settore produttivo, del costo della vita, della produttività. Inoltre, una parte delle micro-attività che impiegano manodopera male o malissimo pagata hanno margini estremamente ridotti, e non sarebbero in grado di sostenere gli aumenti salariali richiesti. In concreto, significa che la fissazione di un salario minimo legale a 9 o 10 euro lordi, uniforme su tutto il territorio nazionale, avrebbe effetti a loro volta tutt’altro che uniformi. Nei contesti ad alta produttività porterebbe a miglioramenti retributivi sostanziali, in quelli a bassa produttività condurrebbe alla chiusura di attività che operano al limite della redditività (sempre, beninteso, che governo e sindacati si impegnino a far rispettare la legge, anziché continuare a chiudere ipocritamente un occhio come si è sempre fatto in passato). In concreto, vorrebbe dire: salari più alti in molte realtà del centro-nord, più disoccupati in molte aree del sud.

Se i meccanismi fondamentali sono questi, forse sarebbe il caso di considerare l’ipotesi di un salario minimo legale differenziato per settore e zona del paese, in modo da non penalizzare troppo le attività con la produttività più bassa.

Saprà l’opposizione di sinistra muoversi in questa direzione?

È improbabile, vista la tendenza di Pd e Cinque Stelle ad affrontare tutte le questioni in termini etici e di principio, anziché in termini pragmatici e realistici. E non è questione di Schlein o non-Schlein, perché quella tendenza era già in atto in epoca pre-Schlein, e non su temi secondari. Pensiamo all’approccio ideologico in materia di immigrazione e accoglienza, o alla disastrosa gestione del Ddl Zan sull’omotransfobia, quando per preservare la purezza politica venne rifiutata l’offerta della destra di approvare il disegno di legge Scalfarotto (un’ottima legge, priva dei difetti del Ddl Zan).

È verosimile che tutta la discussione che partirà sui contenuti esatti della proposta di salario minimo legale verterà sul suo livello, con i riformisti a tirare per un livello ragionevole, e i massimalisti per un livello irragionevole ma auto-gratificante. Il risultato sarà che il governo avrà gioco facile a ignorare le proposte dell’opposizione, mostrandone l’irrealismo e gli effetti perversi.

Eppure dovrebbe essere chiaro che è il modo peggiore per provare a costruire un campo largo. Per riconquistare la fiducia degli italiani, ai progressisti serve mostrarsi in grado di fare proposte così sensate che risulti difficile rifiutarle. E incalzare il governo a farle rispettare.

Proporre un salario minimo elevato, uguale in tutta Italia, e quindi impossibile da rispettare per molte imprese, può scaldare il cuore dei militanti più ideologizzati o moralisti. Ma difficilmente può convincere la maggioranza degli italiani.




Antigone non abita più qui

Hanno assunto una certa frequenza, negli ultimi anni, i casi in cui un individuo o un funzionario pubblico violano qualche legge o regola più o meno vincolante invocando ragioni di principio, o ricorrendo a qualche forma di obiezione di coscienza, se non di vera e propria disobbedienza civile. È accaduto, in passato, con i decreti sicurezza di Salvini, con la gestione disinvolta degli immigrati (famoso il caso del sindaco Mimmo Lucano), con le leggi che vietano l’aiuto al suicidio (Marco Cappato e il Dj Fabo). Accade, negli ultimi tempi, con le trascrizioni, da parte dei sindaci, degli atti di nascita dei figli di coppie del medesimo sesso. Ed è accaduto pochi giorni fa con il rifiuto del rettore dell’Università per stranieri di Siena di esporre la bandiera a mezz’asta, rispettando il lutto proclamato dal governo per la morte di Silvio Berlusconi.

Ma è accaduto spesso anche in modo più subdolo, ogni volta che gruppi di contestatori hanno impedito di parlare a esponenti politici, quasi sempre di destra. L’ultimo caso di questo tipo è accaduto al Salone del Libro di Torino un mese fa, quando al ministro Eugenia Roccella è stato fisicamente impedito di presentare un suo libro, adducendo come motivo il carattere liberticida del governo di cui fa parte.

Tutti questi episodi sollevano un problema importante: in quali casi è giustificato esercitare l’obiezione di coscienza, o mettere in atto forme (collettive) di disobbedienza civile?

A prima vista, una risposta potrebbe essere: ogniqualvolta l’autorità pubblica viola un diritto o un principio fondamentale. È il modello Antigone, che nella celebre tragedia di Sofocle dà sepoltura al fratello Polinice, obbedendo alle “non scritte leggi degli dei”, ma così violando quella della città (Tebe), retta dal tiranno Creonte.

Ci sono due complicazioni, però, se cerchiamo di applicare il modello Antigone al nostro tempo. Innanzitutto, siamo in una democrazia, le leggi sono espressione del Parlamento, ed esiste la possibilità di cambiarle senza spargimento di sangue. In secondo luogo, siamo in un tempo di “politeismo dei valori”, espressione con cui Max Weber descriveva la necessità di scegliere fra valori contrastanti, nessuno dei quali può pretendere di avere una validità assoluta. A differenza di Antigone, raramente abbiamo un valore condiviso cui appellarci contro la prepotenza del potere, perché siamo noi stessi – cittadini delle società moderne – in conflitto fra noi sui valori, i principi, i doveri e i diritti.

Ecco perché l’obiezione di coscienza, in qualsiasi campo si applichi, è sempre esposta a un rischio: quello di far valere un principio che non è universale, ma pretende di esserlo. Come già nelle antiche vicende della leva obbligatoria e dell’aborto, non ci troviamo di fronte a un principio assoluto e indiscutibile, da far valere contro un potere dispotico, ma a un genuino conflitto fra valori inconciliabili: la difesa della patria e il divieto di uccidere, la vita del nascituro e l’autodeterminazione della donna. In una situazione nella quale la società civile è divisa fra opposte concezioni di quel che è giusto e quel che è sbagliato, di quel che è bene e quel che è male, l’obiezione di coscienza è ancora possibile, ma assume inevitabilmente una curvatura soggettiva, e per ciò stesso non esente da arbitrarietà, se non da hybris individualista. Il caso della gestazione per altri, o utero in affitto, lo illustra nel modo più chiaro: fra diritto alla genitorialità e principio di non mercificazione del corpo della donna è impossibile fare una scelta che metta d’accordo rutti.

Forse dovremmo rassegnarci a questo e, quando insorgono conflitti valoriali, considerare con rispetto entrambe le posizioni, senza pretendere di attribuire caratteri di universalità a diritti che tali non sono. In una democrazia, il conflitto fra modelli culturali e concezioni del bene è fisiologico. Quel che non è fisiologico è che una parte assuma di avere il monopolio del bene, e pensi le proprie battaglie nel registro dell’obiezione di coscienza classica, come se fossero dirette contro un potere arbitrario e dispotico, che calpesta diritti divini, naturali o universali. Perché il mondo è cambiato, Giorgia Meloni non è Creonte, e Antigone non abita più qui.




Meloni, consenso effimero?

Che Giorgia Meloni abbia il vento in poppa sono in molti a pensarlo. I recenti risultati alle elezioni comunali sembrano dimostrarlo in modo inequivocabile. La maggior parte dei sondaggi lo confermano. Compresi quelli usati per sostenere il contrario, come quello recentissimo di Alessandra Ghisleri, pubblicato con grande evidenza su “La Stampa” giovedì scorso: il calo di consenso di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni sono di entità trascurabile (entrambi contenuti entro l’errore statistico), mentre tutti gli altri principali leader, compresa Elly Schlein, perdono circa 2 punti.

Dunque tutto bene per il governo di Giorgia Meloni?

Apparentemente sì. Però ci sono anche ragioni per pensare che il consenso attuale sia drogato da alcuni fattori che lo tengono artificialmente elevato. Vorrei menzionarne almeno tre.

Primo. Il principale partito di opposizione, il Pd, non ha una linea politica riconoscibile, come hanno mostrato le ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’invio delle armi all’Ucraina, sul delicato tema dell’utero in affitto. Né si vede come una tale linea possa emergere, stante il fatto che la maggioranza degli iscritti al Pd ha scelto Stefano Bonaccini, non certo Elly Schlein (53% contro 35% dei consensi). Per realizzare il suo progetto, Schlein ha necessità di rottamare buona parte della vecchia classe dirigente, ma se provasse a farlo fino in fondo farebbe esplodere le tensioni e i conflitti interni al partito. La vicenda della sostituzione, come vice-capogruppo alla Camera, del riformista Piero de Luca con l’ultra-pacifista Paolo Ciani, è solo un assaggio di quel che potrebbe accadere man mano che la neo-segretaria procederà sulla via del ricambio.

Secondo. Non è detto che intellettuali, tv e grande stampa non si accorgano, prima o poi, che la demonizzazione di Giorgia Meloni è controproducente. Oggi il premier può contare sull’aiuto involontario che, con le loro chiamate alle armi ed esternazioni antifasciste, quotidianamente le forniscono personaggi come Roberto Saviano, Michela Murgia, Ginevra Bompiani, Tomaso Montanari. Ma domani? Se la smettessero, o i media non si prestassero più a diffondere i loro allarmi, se il dibattito si spostasse su temi più prosaici e concreti, e Giorgia Meloni venisse chiamata a rispondere, punto per punto, dell’efficacia del suo operato? Allora, la rendita di posizione dovuta al cieco furore dei suoi nemici giurati potrebbe sciogliersi come neve al sole.

Terzo. Il tempo esiste. Per l’opinione pubblica non è la stessa cosa giudicare un governo all’inizio, a metà o alla fine di una legislatura. La sinistra si illude se pensa che i cittadini possano ritirare il consenso a Giorgia Meloni solo perché, finora, non ha mantenuto nessuna delle promesse fondamentali del centro-destra: contenere gli sbarchi illegali, ridurre le tasse a tutti, portare a 1000 euro il livello delle pensioni minime. E ancor più si sbaglia se spensa che la delusione per queste promesse mancate possa portare voti a sinistra: la gente sa perfettamente che, certe promesse, può mantenerle solo la destra, e che un governo di sinistra si limiterebbe ad azzerare ogni speranza di vederle realizzate.

Ma nel medio periodo tutto cambia. Se Meloni non riuscirà a mantenere le promesse, speranza e paziente attesa, di cui l’elettorato sta dando ampia prova, sono destinate a lasciare spazio a disillusione, amarezza, risentimento. Perché l’opinione pubblica funziona così: alla luna di miele segue il redde rationem, l’ora della resa dei conti. Anzi, si potrebbe dire che il redde rationem è la norma, la luna di miele è l’eccezione, una sorta di privilegio degli inizi. Non per nulla, nella seconda Repubblica, nessun governo è mai stato confermato nel turno elettorale successivo.

Una volta scavallato l’appuntamento delle elezioni europee (primavera dell’anno prossimo), comincerà il conto alla rovescia per le elezioni politiche del 2027, punteggiato da una miriade di insidiosissimi appuntamenti elettorali locali (regionali e comunali). È a quel punto che sarà essenziale, per Giorgia Meloni, avere un bilancio di risultati concreti in attivo. Altrimenti, nemmeno le pulsioni autolesioniste del Pd potrebbero bastare a conservarle il consenso.




E se smettessimo di fingere? Investire contro il cambiamento climatico: ma è la strada giusta?

Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli.

La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere?  (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata?

Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso  costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A.

Ed ecco l’idea Franzen: “una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria.

La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità). Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?