Sinistra e 1° maggio – Intervista a Luca Ricolfi

“Quando ero giovane il Primo Maggio era innanzitutto una festa sindacale, quasi sempre vissuta gioiosamente dalla gente. Ci andavano persone iper-politicizzate e persone normali, spesso con l’intera famiglia. Nella mia Torino era una sorta di scampagnata urbana, in cui chi ne aveva voglia ascoltava i comizi dei capi sindacali, e tutti quanti ci facevamo una passeggiata in centro. Poi è caduto il muro di Berlino, e dall’anno dopo (non so se c’è un nesso fra le due cose) il Primo Maggio è diventata la data del “concertone”, la politica e i sindacati hanno fatto un passo indietro a favore di cantanti e artisti, con massiccia copertura televisiva, specie di Rai 3, negli ultimi 25 anni”.

Già, il concertone,  da anni ha come filo portante i temi etici e i diritti civili: è un cambio di natura che paga politicamente?

“Non so se paga, certo accelera la metamorfosi del Pd in “partito radicale di massa”, come aveva profetizzato Augusto Del Noce”.

Perché e quando la sinistra ha perso il contatto con i ceti produttivi?

“Su questo la vedo come Fausto Bertinotti: la prima origine del distacco è la sconfitta politica del 1980, con la “marcia dei quarantamila”. Poi ci sono stati gli errori, ovvero la lenta deriva che ha portato la sinistra a privilegiare i diritti civili sui diritti sociali, e quindi – logica conseguenza – a guardare ai ceti medi tecnico-impiegatizi, urbanizzati e istruiti, anziché ai due grandi segmenti popolari, poco istruiti e periferici, del lavoro autonomo e del lavoro dipendente esecutivo”.

Dalla “Società signorile di massa” non si guarisce più, anche perché nel frattempo c’è stata “La mutazione, le idee di sinistra sono migrate a destra”. Nella “Repubblica delle tasse (perché l’Italia non cresce più)”, si è spesso esercitata “L’arte del non governo, da Prodi a Berlusconi e ritorno”, con “Il sacco del Nord (saggio sulla giustizia territoriale)” e “La sinistra e il complesso dei migliori (perché siamo antipatici)”: nei libri del sociologo e politologo torinese Luca Ricolfi c’è la storia recente dell’Italia. E’ al grande studioso del nostro Paese che Libero si rivolge per chiedere lumi su dove stiamo andando. Alla vigilia del voto per le Europee e all’indomani dello “scrivete Giorgia sulla scheda elettorale” con cui il premier ha voluto azzerare le distanze con i cittadini, nel giorno della Festa dei Lavoratori, che quest’anno sembra fatto apposta per fotografare lo scollamento della sinistra dai ceti popolari, torna a farsi sentire la prima voce critica che si levò dal fronte progressista, quando il sol dell’avvenire non era ancora calato e sembrava che il Pd e i suoi antenati avessero le chiavi in mano per guidare la nazione.

Professore, quanto pesano i lunghi anni di governo del centrosinistra sulla delusione del suo vecchio elettorato di riferimento?

“Tantissimo. La gente sa che dopo il 2011 la sinistra è quasi sempre stata al governo, e intuisce che, se il paese è allo sbando, la sinistra stessa non può chiamarsene fuori”.

Come può la sinistra recuperare gli elettori persi?

“La vedo dura. Elly Schlein è perfetta per confermare la base attuale, ma poco adatta a riconquistare i ceti popolari, che le preferiscono di gran lunga i Cinque Stelle. A sinistra non vedo nessuno più carismatico di lei ma dubito sia la persona giusta per riportare al Pd il voto dei ceti bassi”.

Che fare, dunque?

“Io ho un’idea forse ingenua, perché pre-politica, ma provo a buttarla lì. Fossi il segretario del Pd, prima ancora di enunciare un programma, mi darei da fare per ricostituire la precondizione per contendere alla destra l’elettorato popolare: il rispetto per chi vota a destra. Finché Schlein non lo fa, e preferisce continuare a trattare gli elettori di centro-destra come gente abbindolata che non si rende conto del pericolo fascista incombente, è psicologicamente arduo transitare da destra a sinistra. Se passi anni a darmi del cretino, perché dovrei voler venire da te?”.

I poveri sono (e si sentono) rappresentati meglio dal Pd, da Conte o dal centrodestra?

“Da Conte, secondo i sondaggi. Poi dal centro-destra. Molto meno dal Pd e dai suoi alleati”.

Però la politica grillina dei bonus – regalini in cambio di aumenti di stipendio, carità al posto di rispetto dei diritti – ha fatto male all’Italia, specialmente ai poveri…

“Culturalmente, è stata diseducativa. Ma soprattutto ha sottratto risorse ad impieghi più sani, come gli investimenti pubblici e il welfare di cui più c’è bisogno (penso agli asili nido e alla sanità)”.

La sinistra e i sindacati parlano di lotta al precariato ma 1) i dati ci dicono che aumentano i lavori a tempo indeterminato e gli occupati 2) la precarizzazione del lavoro in Italia risale al governo Renzi e, prima ancora, ai governi di D’Alema e Amato. Dove sta la verità?

“La precarizzazione è il nome che la sinistra dà a un fenomeno in gran parte fisiologico, per non vedere quello patologico: il ristagno trentennale della produttività, che è la vera causa dei bassi salari”.

Di cosa hanno bisogno oggi i lavoratori?

“Contratti aziendali con salari più alti, ovunque la buona salute dell’impresa consenta gli aumenti. Smantellamento della infrastruttura para-schiavistica che coinvolge circa 3.5 milioni di lavoratori (i calcoli stanno nel mio libro La società signorile di massa) e di cui nessuno vuole occuparsi. Ci sono migliaia di situazioni di iper-sfruttamento note e visibili a occhio nudo, nelle campagne come nelle città e nei piccoli centri, ma né i governanti né i sindacati paiono interessati a occuparsene”.

Il sindacato ha smarrito il proprio ruolo?

“I sindacati, ormai, si muovono in una logica al tempo stesso politica e burocratica. Politica, perché il loro atteggiamento dipende dal colore politico dei governi. Burocratica, perché una quota eccessiva delle loro energie è dedicata a tutelare i pensionati ed erogare servizi (ad esempio con i Caf), con insufficiente attenzione alla contrattazione, come risulta evidente dai tantissimi (più del 50%) contratti collettivi nazionali scaduti e non ancora rinnovati”.

Elly Schlein accusa Giorgia Meloni di essere fuori dalla realtà: quanto è dentro la realtà italiana la sinistra?

“Le denunce della sinistra non sono sempre fuori della realtà, quello che è fuori della realtà è la diagnosi. Le faccio un esempio: ha ragionissima Schlein quando contesta le cifre di Giorgia Meloni sulla sanità, perché se metti qualche miliardo in più ma l’inflazione se ne mangia il doppio, il rapporto spesa sanitaria-pil diminuisce, ed è quel rapporto che conta, non la spesa nominale. Però, se vuoi essere completa, e dire tutta la verità, dovresti aggiungere: il motivo per cui Giorgia Meloni non può aumentare abbastanza la spesa sanitaria sono le spese pazze passate dei Cinque Stelle (reddito di cittadinanza e super-bonus) che hanno messo una pesantissima ipoteca sulla spesa sociale futura”.

Perché il sindacato non riesce a condannare il superbonus, definito una patrimoniale al contrario – i ricchi che ristrutturano casa con i soldi dei poveri e del ceto medio – : è una definizione corretta?

“Sì, sostanzialmente corretta. Sul perché i sindacati non abbiano condannato a suo tempo il superbonus mi viene una sola spiegazione: non avevano idea di quanto sarebbe costato, e non hanno ancora capito – nemmeno oggi – che ogni euro di spesa pubblica messo su qualcosa è tolto da qualcos’altro. Detto in altre parole: per negoziare con il governo la politica economico-sociale occorre avere chiare le priorità, e soprattutto essere uniti: due condizioni da tempo assenti”.

Il tema superbonus introduce quello dei tagli alla sanità, altro grande tema della campagna elettorale: chi ha la colpa dei tagli alla sanità e come si può rimediare?   

“Il grosso dei tagli è stato fatto in passato, ed è dovuto alla necessità di frenare la crescita del debito pubblico. In assenza di crescita, l’unico modo per salvare la sanità sarebbe di incidere sulla vera stortura del nostro welfare, ossia il peso eccessivo della spesa pensionistica, un male ben noto e perfettamente messo a fuoco quasi 30 anni fa dal “rapporto Onofri”. Ma chi avrebbe mai il coraggio di farlo?”.

Ci possiamo ancora permettere un modello di sanità pubblica che, almeno sulla carta e come aspirazione, non ha eguali al mondo?

“No. Temo che – sempre nell’ipotesi che Pil e produttività continuino a ristagnare – l’unica cosa che potremmo fare è aumentare il ticket per i ceti medi e alti, con conseguente istantanea indignazione generale”.

Il governo si giocherà la fiducia sul tema economico e fiscale, e quali sono i pericoli dietro l’angolo per Meloni e soci?

“Di pericoli ne vedo moltissimi. Per le riforme promesse non ci sono risorse sufficienti. Premierato e autonomia differenziata coaguleranno un fronte di paladini della Costituzione violata. I media ostili continueranno a stravolgere qualsiasi cosa venga detta da esponenti di centro-destra. Mosse incaute, come l’apertura dei consultori alle associazioni pro-vita, susciteranno vespai infiniti. L’eccesso di zelo in Rai e fuori continuerà a provocare macelli politici e mediatici. L’unico spiraglio che vedo, per il centro-destra, è l’allarme antifascista, specie ora che ad agitarlo sono i martiri Scurati e Saviano: una polizza di assicurazione formidabile, che potrebbe – ancora una volta – esonerare il centro-destra dalla fatica di giocare in campo aperto, spiegando per bene i suoi progetti e rendendo conto dei propri fallimenti. Ma sarebbe un peccato: non mi sono mai piaciute le partite decise a tavolino”.

[intervista uscita su Libero il 1° maggio 2024]




Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

 

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)




Intervista a Luca Ricolfi

  1. Lei ha insegnato quasi tutta la vita all’Università di Torino. E’  la  prima volta che si verifica un  simile condizionamento da parte dei collettivi universitari?

No, purtroppo. Nella nostra università, ma più in generale nella città di Torino, piegarsi alle richieste (e talora alle intimidazioni) dei collettivi studenteschi è una lunga tradizione Ricordo, per fare un esempio remoto, quando – più di venti anni fa – a Marcello Veneziani fu impedito di parlare a Palazzo Nuovo, ma anche vari atti di intolleranza al Salone del libro, da ultimo quello verso il ministro Eugenia Roccella.

Quel che è inquietante è che, nella maggior parte dei casi, queste manifestazioni di intolleranza e prevaricazione, sono condotte in nome dell’antifascismo.

  1. Secondo lei si sarebbe potuto dire di no alla mozione scritta da alcuni docenti e poi condivisa dagli studenti?

Certo, si sarebbe dovuto dire no.

  1. Una fetta di accademici parla di “Rettorato debole”. Lo fanno anche attraverso una lettera aperta condivisa (ormai) da un’ottantina di professori.  Che ne pensa?

Meno male che c’è una reazione, sono rimasto sconvolto quando ho appreso che in Senato accademico solo la professoressa Susanna Terracini aveva votato contro la decisione anti-Israele. Ho appena letto la mozione, molto chiara e coraggiosa. La condivido bit per bit, anzi ne approfitto per aggiungere il mio nome.

Ho solo due piccoli dubbi.

  1. Quali?

Innanzitutto, mi chiedo se il Rettore non dovrebbe dimettersi. E poi mi stupisco di quanti colleghi che conosco benissimo (almeno un centinaio) NON siano presenti fra i firmatari: spero che sia solo una questione di tempo, e che domani l’elenco sarà molto più lungo.

  1. Non crede che il retropensiero della questa mozione del Senato accademico possa essere una forma di antisemitismo strisciante?

Io parlerei di antisemitismo conclamato, più che strisciante. Anche se, a mio parere, quello cui siamo di fronte non è semplicemente antisemitismo, ma una forma inedita di razzismo, che perseguita – o invita a perseguitare – le persone non per gli atti di cui sono responsabili, ma per i loro caratteri ascritti: etnia, nazionalità, sesso. E’ la fine della civiltà liberale, che era basata sulla tolleranza, e sul principio di responsabilità personale.

  1. C’è una saldatura inedita tra Me Too e antisemitismo?

Certo, ma non completamente inedita. Le manifestazioni dell’8 marzo scorso, silenti sulle donne israeliane uccise da Hamas, anzi ostili alla ragazza che coraggiosamente cercava di ricordarle, sono un precedente agghiacciante.

  1. Al di là dei fatti di Torino, che cosa sta accadendo, professore, nelle università italiane?

Quel che accade da 60 anni, ma ora con frequenza inquietante: si impedisce di parlare a chi la pensa in modo non gradito ai collettivi studenteschi.

  1. C’è un collegamento con la cultura woke, che dilaga negli States?

Eccome se c’è. Per la cultura woke la missione principale delle università non è più è la ricerca scientifica, l’indagine obiettiva e disinteressata, l’avanzamento della conoscenza, bensì il perseguimento della Social Justice, un concetto vago e pervasivo cui tutto il resto viene subordinato. Un cambiamento epocale, che in diversi atenei americani ha portato addirittura a cambiarne gli statuti. Noi ci stiamo arrivando, senza bisogno di cambiare gli statuti: ci basta un senato accademico sottomesso.

  1.  Possiamo dire che si sta cercando di politicizzare la scienza? E’ giusto farlo?

Non solo la scienza. Si sta politicizzando tutto, dai rapporti interpersonali ai codici etici delle imprese e delle istituzioni. La faziosità e la politica stanno invadendo quelle che, a mio parere, dovrebbero semprerestare zone franche sacre: la ricerca scientifica, la letteratura,  l’arte, la musica, il teatro, lo sport. Ma ci rendiamo conto che, un paio di anni fa, l’università di Milano è arrivata a sopprimere il corso di Paolo Nori su Dostoevskij perché Dostoevskij è russo? E che, sempre due anni fa, gli atleti disabili sono stati esclusi dalle Paralimpiadi in quanto russi o bielorussi?

  1. L’Università dovrebbe essere un luogo di scambio di esperienze e di contaminazione: escludendo qualcuno o qualcosa non si rischia di perdere per strada valori e conoscenze?

Certo, si perde tantissimo sul piano scientifico-culturale. Ma si perde molto anche sul piano politico-diplomatico. Peccherò forse di ingenuità, o di idealismo, ma sono convinto che, se avessimo avuto il coraggio di mantenere zone franche, le vie del dialogo sarebbero oggi meno impervie.

E poi c’è un’altra ragione, per cui credo nelle zone franche.

  1. Quale?

Per spiegarla devo fare una premessa. A mio parere, il tratto fondamentale del nostro tempo è il rifiuto di riconoscere l’umanità dell’altro, un rifiuto che in questo momento colpisce i russi in quanto russi, gli israeliani in quanto israeliani, le donne israeliane a dispetto del loro essere donne. L’esistenza di zone franche, in cui le persone si incontrano come scienziati, scrittori, atleti, musicisti, sarebbe un prezioso contro-veleno rispetto al dilagare dell’odio neo-razzista.

  1. L’attacco alla professoressa Chiara Saraceno, costretta a intervenire e difendere la sua storia accademica e di femminista, che cosa rappresenta?

E’ la rappresentazione plastica dell’imbarbarimento di una componente significativa del femminismo, che ormai ha assunto tratti neo-razzisti.

Chiara Saraceno, che è stata mia direttrice quando ero al Dipartimento di Scienze Sociali, è una grande studiosa, femminista coerente, donna coraggiosa. Che le ragazze di oggi siano arrivate al punto di contestare Chiara Saraceno, la dice lunga sul livello di faziosità e intolleranza cui si è arrivati.

Le esprimo tutta la mia solidarietà. Ma vorrei metterle una pulce nell’orecchio: siamo sicuri che l’indulgenza del mondo progressista verso la mentalità woke, la timidezza nel condannare i tanti episodi di squadrismo “antifascista”, la iper-politicizzazione delle nostre discipline sociali, la costante demonizzazione degli avversari, non abbiano contribuito a chiudere gli spazi del dialogo e della tolleranza?

[intervista uscita su La Stampa, 22 marzo 2024]




Intervista di Mirella Serri a Luca Ricolfi

Nel suo libro “La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli) lei ha elaborato un insolito modello interpretativo per decodificare gli ultimi inaspettati cambiamenti politici: ovvero come mai destra e sinistra si sono scambiate da qualche tempo la base sociale e, mentre i più poveri e gli operai votano a destra, i più abbienti si volgono a sinistra. Adesso ripropone questo excursus tra vecchie e nuove povertà con una nuova introduzione (Un’altra sinistra è possibile?) in cui si rivolge direttamente alla sinistra riformista italiana.

La sinistra italiana è impegnata soprattutto nelle cosiddette “battaglie di civiltà”: unioni civili, eutanasia, liberalizzazione delle droghe, diritti lgbtq+. La parola d’ordine è “inclusione”. Basta per convincere gli strati popolari a votarla?

Ne dubito, se non altro perché fra le categorie di cui – in nome dell’accoglienza – si auspica l’inclusione vi sono anche gli immigrati irregolari, che ai ceti popolari creano almeno tre problemi: pressione al ribasso sui salari (il cosiddetto dumping), insicurezza nei quartieri popolari e nelle periferie, competizione nell’accesso al welfare, specie sanitario. È il caso di ricordare che il tasso di criminalità degli irregolari è dell’ordine di 20-30 volte quello degli italiani, e che l’immigrazione irregolare – a differenza di quella regolare – è essenzialmente un costo, perché non paga né le tasse né i contributi. La sinistra ha tutto il diritto, anzi il dovere, di proporre soluzioni diverse da quelle della destra, ma non può continuare a ignorare o minimizzare il problema, almeno se vuole recuperare una parte del voto popolare.

Lei ha sempre considerato un suo punto di riferimento “L’età dei diritti” di Norberto Bobbio. Lo è ancora oggi?

Sì, perché Bobbio istituisce una distinzione cruciale – oggi perlopiù ignorata – fra legittime aspirazioni e diritti in senso proprio. Oggi si tende a chiamare diritti, e a trattare come diritti naturali e universali, aspirazioni (ma talora Bobbio le chiama pretese) che non hanno ancora un riconoscimento giuridico che ne garantisce il godimento effettivo. È il caso, per fare due esempi di attualità, del matrimonio egualitario e dell’eutanasia.  

È un punto molto importante, perché spiega due cose. Primo, come mai nel nostro sistema sociale sono così diffusi vittimismo, frustrazione, aggressività, rabbia. Secondo, come mai da decenni non si osservano più grandi movimenti sociali e grandi lotte, come quelle del ciclo 1967-1980.

Perché mai la rivendicazione di diritti dovrebbe ostacolare le lotte?

È semplice: perché se pensi che hai diritto a qualcosa il tuo atteggiamento è di esigerla dallo Stato, questa cosa cui hai diritto; se invece pensi che la tua sia solo un’aspirazione, magari anche un po’ controversa, ti poni il problema di portare dalla tua parte chi non è d’accordo, e di lottare per ottenere ciò cui aspiri, come mezzo secolo fa è successo per divorzio e aborto. Le aspirazioni producono impegno, i diritti presunti risentimento.

In questo, pur riconoscendo l’importanza del contributo di Bobbio, mi sento più in sintonia con Simone Weil, che tendeva a ragionare in termini di doveri e di conquiste, più che di diritti.

Esiste una sindrome vittimistica che prevale a sinistra?

Eccome, ci sono studi di psicologia sociale che lo hanno documentato in modo molto preciso, usando la “scala di Rotter”, una geniale invenzione degli anni ’50. La tendenza a chiamare sempre in causa la società, il sistema, la situazione, i condizionamenti, sottovalutando tutto ciò che dipende dall’individuo, è tipico della mentalità progressista. È un problema, perché questo atteggiamento disincentiva l’assunzione di responsabilità, che è un ingrediente essenziale di qualsiasi sistema sociale.

Secondo lei l’accettazione acritica della modernizzazione è un problema?

Lo è perché i progressi tecnologici in campo bio-medico, militare, elettronico, informatico, hanno ricadute pesantissime sulla vita quotidiana e sulla salute. Di recente, statistici e psicologi hanno documentato i danni mentali (fino all’autolesionismo e al suicidio) che i social stanno provocando sui ragazzi, e ancor più sulle ragazze. Altre ricadute della tecnologia, invece, le vedremo solo fra un po’, quando l’intelligenza artificiale e l’automazione verranno sfruttate estensivamente da organizzazioni criminali e stati-canaglia (naturalmente, so benissimo che anche solo accennarne suscita l’accusa di luddismo).

In cosa sbaglia la sinistra in crisi? Trascura tematiche fondamentali come occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e protezione sociale? Sottostima le diseguaglianze?

Ho scritto La mutazione anche per dire lo sconcerto che in tanti, a sinistra, proviamo di fronte all’involuzione dell’establishment progressista. Di fatto, negli ultimi decenni la sinistra ha abbandonato tre bandiere fondamentali: la difesa dei ceti popolari “nativi”, in omaggio all’accoglienza; la difesa della libertà di pensiero, in nome del politicamente corretto e delle minoranze Lgbt; l’idea gramsciana dell’emancipazione attraverso la cultura, con la distruzione della scuola e il rifiuto del merito. Il guaio è che le prime due idee sono migrate a destra, e la terza lo sta facendo, con la decisione di Giorgia Meloni di attuare gradualmente l’articolo 34 della Costituzione, che prevede borse di studio per i “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” (“l’articolo più importante”, secondo Piero Calamandrei). Tutto questo ha fortemente depauperato il patrimonio ideale della sinistra, e ha finito per arricchire quello della destra: il valore sottratto al campo progressista si è tramutato in valore aggiunto per il campo conservatore.

È una situazione irrimediabile?

Spero proprio di no, non dobbiamo rassegnarci. E a giudicare da quel che sta accadendo in Europa qualche speranza di cambiamento possiamo nutrirla. In Germania, Francia, Regno Unito, Danimarca, Svezia sono in corso diversi esperimenti politici per costruire una “sinistra blu” (da blue collar), meno sorda alle istanze popolari. Questo tipo di sinistra contende efficacemente il sostegno popolare alla destra perché incorpora sacrosante istanze securitarie, diffida del politicamente corretto, privilegia i diritti sociali rispetto a quelli civili, non ignora gli effetti anti-popolari della transizione green.

L’ascensore sociale si è bloccato? La cultura alta è ancora strumento di emancipazione dei ceti popolari attraverso l’istruzione?

L’ascensore è bloccato perché – con l’illusione di includere – si è drasticamente abbassato il livello degli studi nella scuola e nell’università, e nulla si è fatto per premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”. È uno dei tanti paradossi italiani che tocchi a Giorgia Meloni attuare il sogno di Piero Calamandrei.

(intervista uscita su “La Stampa” il 26 febbraio 2024)




Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.